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Vicini di casa, vicini di cuore

di CAROL MARINELLI

Celeste: Il mio nuovo vicino di casa è davvero affascinante e oltretutto lavoriamo nello stesso posto. Ma adesso ho altro a cui pensare, devo assolutamente concentrarmi sulla mia vita. Forse Ben può rivelarsi un piacevole diversivo.
Ben: Un altro anno, un nuovo inizio, quello che mi ci vuole per dimenticare. Allora perché mi sento così nervoso? Forse sono solo agitato per il mio primo giorno di lavoro. E poi, ci mancava pure la strana attrazione che provo per Celeste. Possibile che uno come me abbia voglia di una relazione stabile?

8

Ben andava abbastanza spesso a trovare Celeste nella sua camera e qualche volta la incontrava in mensa do­ve ogni tanto lei scendeva a scambiare quattro chiac­chiere con i colleghi e ne approfittava sempre per a­ve­re notizie fresche di Willow.

    La piccola stava meglio e Celeste notava in lei con­tinui miglioramenti. C'erano progressi anche nel rap­porto con sua madre: il ghiaccio si stava finalmente sciogliendo. Rita veniva tutti i giorni, inizialmente con la scusa di vedere la sua nipotina, ma portava sempre anche cose utili per Celeste e poi a mano a mano i­ni­ziò a presentarsi con dei piccoli pensieri affettuosi.

    Fu sempre Rita a procurare le scorte di latte in pol­vere quando quello di Celeste se ne andò ir­ri­me­dia­bil­mente. «Più ti stressi peggio è» l'ammonì un giorno mentre lei cercava di spremerne ancora qualche goccia col tiralatte. Celeste era scoppiata in lacrime. Nelle sue tre settimane di vita Willow aveva bevuto ben po­co latte materno che succhiava fino a che era esausta, mentre il resto le veniva somministrato con un son­di­no. Celeste stava facendo di tutto per produrre almeno un po' di latte e odiava la stanza dove sedeva per ore per spremerne solo poche gocce. «È fondamentale che beva il latte materno» le aveva detto il pediatra e lei stringeva i denti e soffriva in silenzio.

    «Dovresti mangiare di più anche tu» sbottò un gior­no Rita. Non ne poteva più di tutte quelle pressioni che venivano esercitate su sua figlia riguardo alla bambina. «Anch'io non sono riuscita ad allattarti, Ce­leste, ho dovuto passare al biberon quando avevi solo quattro giorni.»

    «E infatti, guarda che bel risultato!»

    Era dimagrita, tesa, nervosa e profonde occhiaie scure le circondavano gli occhi. Però quella, dopo un sacco di tempo, era la prima battuta scherzosa che scambiava con sua madre.

    All'inizio Rita non ne aveva afferrato il senso, ma poi, mentre stava per rimettersi a leggere, capì e iniziò a ridere insieme a Celeste.

    «Non mi sembri poi venuta così male» osservò quando smisero di ridere fino alle lacrime. Era la pri­ma cosa carina che sua madre le diceva da anni. «Ora vai a mangiare qualcosa, ci penso io qui» le ordinò mettendo la bottiglietta col latte per Willow nel frigo, «vai dai tuoi colleghi e rilassati un po', prenditi un po' di tempo per te stessa.»

    Ma per Celeste quella non era una pausa gradita; ormai si era adagiata nella routine quotidiana che si svolgeva nella piccola stanza insieme a sua madre e poi, la sera, chiacchierava con le altre madri ansiose quanto lei. Riempiva le sue giornate con il pensiero fisso di nutrire la bimba, di spremere il latte e di im­pa­rare a occuparsi di lei sotto l'occhio vigile delle pue­ri­cultrici. Una delle poche distrazioni che si concedeva era quella di scegliere il cibo dal menu per le ne­o­mamme. Ogni tanto sua madre insisteva che staccasse un momento, ma Celeste era sempre molto riluttante a farlo. I giardini dell'ospedale erano tali solo di nome, lo spaccio all'interno aveva terminato i suoi dolcetti preferiti e aveva letto tutte le riviste disponibili al­me­no due volte. Era scesa un paio di volte in Pronto Soc­corso, ma sempre nei momenti sbagliati, e quindi era andata a sedersi da sola nella stanza dello staff. Quello che faceva meno volentieri era andare in mensa per­ché a­ve­va la sensazione di non averne il diritto perché era nello stesso tempo un membro dello staff, ma an­che una paziente e soprattutto una mamma. Inoltre non aveva l'uniforme, né la targhetta di i­den­ti­fi­ca­zio­ne, e nemmeno la bimba con sé. E, peggio ancora, quando i suoi colleghi la vedevano sulla porta le fa­ce­vano cenno di entrare e si informavano sui progressi di Willow. Celeste allora sedeva con loro, gioche­rel­la­va col suo yogurt ascoltando le avventure di Deb du­rante il weekend e Meg che si lamentava perché era troppo impegnata e doveva fare troppi turni di notte.

    E poi un giorno lo vide.

    Aveva in mano il vassoio e stava scegliendosi il pranzo. Accanto a lui c'era Belinda che indossava un'aderente camicetta nera e delle scarpe rosse con un tacco altissimo. I suoi riccioli corvini le danzavano sulle spalle mentre rideva per qualcosa che lui aveva detto, e Celeste sentì qualcosa torcersi dentro di lei.

    Belinda era così affascinante, così sexy e sicura di sé che era molto più adatta di lei per un tipo come Ben. Era certa che, se già non avevano una relazione, presto si sarebbero messi insieme: era solo questione di tempo.

    «Celeste!» Lei era così assorta nelle sue ri­fles­sioni che non si era nemmeno accorta che i col­leghi si sta­vano alzando da tavola. «Ma ci senti?» chiese Meg ri­dendo, «ogni tanto sembri assente... Comunque adesso noi dobbiamo andare, però tu vieni quando vuoi.»

    «Certo.»

    «So che questo non è il momento adatto, ma quan­do avrai voglia vieni da me che parliamo un po' ma, mi raccomando, non far passare troppo tempo.»

    «Promesso» rispose e restò lì, seduta al tavolino, fe­lice della pausa. Belinda e Ben sicuramente non si sa­rebbero seduti con lei perché medici e infermieri non si mischiavano, perlomeno non in mensa. Nelle stanze per il personale invece lo facevano normalmente.

    Meg l'aveva turbata: era chiaro che era troppo pre­sto per parlare di tornare a lavorare, ma in un paio di mesi la cosa sarebbe diventata fattibile e lei sarebbe rientrata in servizio.

    «Come stai?» Celeste era stupita dal calore della voce di Belinda e ancora di più quando questa posò il vassoio sul suo tavolino e sedette accanto a lei. «E co­me sta Willow?»

    «Meravigliosamente.» Celeste arrossì quando anche Ben si unì a loro.

    «Hai idea di quando te le lasceranno portare a ca­sa?» continuò Belinda.

    «Se continua a migliorare con questo ritmo penso tra una settimana, massimo due» rispose Celeste, ma si accorse che Belinda non la stava ascoltando perché era stata chiamata sul cercapersone e im­prov­vi­sa­men­te lei e Ben restarono soli. «Immagino che tu stia or­ganizzando il trasloco» osservò cercando di­spe­ra­ta­mente un argomento di conversazione che non fosse Willow, «quando ti trasferisci nella casa nuova?»

    «Il prossimo weekend» rispose lui. «Il venditore a­veva molta fretta di incassare l'intera cifra e io sono pronto a trasferirmi.»

    «Ah» osservò Celeste continuando a girare il cuc­chiaino nella ciotola ormai vuota dello yogurt, «pensavo di fare un salto a casa sabato perché le infermiere insistono che mi allontani da qui almeno per una not­te. Volevo passare da te per ringraziarti come si de­ve.»

    «Non mi troverai, anche se sarò solo in fondo alla strada.»

    Però non sarebbe più stata la stessa cosa. Erano a­mici, ma lo erano soprattutto per via della vicinanza e il fatto di averlo a tiro di voce le dava una certa si­cu­rezza.

    «Hai il mio numero di telefono?» chiese Ben.

    Celeste scosse la testa e lui lo scribacchiò su un fo­glietto.

    «Chiamami se hai bisogno di qualsiasi cosa.»

    «Grazie.» Lo mise in tasca proprio mentre Belinda stava ritornando, ma sapeva che difficilmente l'a­vreb­be usato. Certo se si fossero incontrati avrebbero scambiato qualche chiacchiera, ma l'epoca delle cene improvvisate davanti alla televisione era finita. Lui stava per traslocare e lei non poteva dimenticare di a­vere una bambina a cui badare che, per sua stessa am­missione, la rendeva off limits, preclusa.

    Belinda disse qualcosa di spiritoso e poi cercarono di coinvolgerla nella loro conversazione, ma con scar­so successo. Erano settimane che Celeste non leggeva un quotidiano ed era all'oscuro di quello che stava succedendo nel mondo. Non si era mai allontanata dal reparto di Terapia Intensiva, il che implicava che non aveva la più pallida idea che avessero aperto il nuovo ristorante di pesce che Belinda stava decantando. Era così fuori dal mondo che le sembrava di assistere a un film in un'altra lingua, e così attenta a leggere i sot­to­ti­toli che perdeva il lato umoristico delle battute e la sua risata arrivava sempre in leggero ritardo. Quando a­ve­va afferrato un argomento, loro due erano già pas­sati a un altro.

    «È meglio che vada...» stava per aggiungere: «ad allattare Willow» ma si trattenne; era una cosa che non interessava a nessuno. «Auguri per il trasloco» disse allontanandosi.

 

    Traslocare fu un vero sollievo, anche se implicava un allontanamento da lei di poche centinaia di metri. Nella nuova casa si sarebbe sentito al sicuro. Lei non sarebbe potuta passare dentro, né lui avrebbe sentito i vagiti della bambina.

    Era innegabile: ormai era completamente preso da Celeste.

    Fin dal primo momento, quando l'aveva vista sulla spiaggia, era stato attratto in modo inspiegabile, e vi­cino a lei dimenticava le ferree regole che si era im­po­sto.

    Quando chiuse per l'ultima volta la porta di quel monolocale sentì che qualcosa era veramente finito e fu colto da un po' di nostalgia per le settimane che a­veva trascorso in quella specie di forno. Nonostante i vicini rumorosi e la mancanza di aria condizionata, in fondo non era stato poi così male, pensò Ben rac­co­gliendo i suoi girasoli che erano diventati altissimi e caricandoli sul furgone che aveva affittato per tra­spor­tare le sue cose. In fondo anche quella era stata una casa.

 

    «Mi spiace moltissimo disturbarti...» Ben fu im­me­diatamente sveglio e vigile, ma era la sua prima notte nella nuova casa e fece fatica a trovare l'interruttore della luce. Percepiva il panico nella voce di Celeste. «La mia macchina non vuole saperne di partire e il primo taxi non sarà qui prima di un'ora.»

    «Aspettami fuori» disse Ben senza nemmeno chie­dere quale fosse il problema, perché se non fosse stata un'emergenza Celeste non lo avrebbe mai chiamato al­le due di notte. «Arrivo subito!»

    Abituato com'era a vestirsi rapidamente quando era reperibile, dopo un attimo Ben già indossava jeans, maglietta e scarpe da ginnastica. Dopo due minuti era davanti alla casa di Celeste dove lei lo aspettava sulla porta.

    Era diventata magrissima. Negli ultimi giorni l'a­ve­va vista assottigliarsi in modo impressionante e ora era un'immagine quasi spettrale illuminata dai fari del­la macchina. Aprì la portiera e lei saltò dentro.

    «Grazie mille! Meno male che mi avevi dato il tuo numero di telefono!»

    «Figurati, sono contento che tu abbia chiamato me.» Capiva che si stava sforzando di non piangere, di restare calma e non l'assillò con domande. Si limitò a guidare e a portarla rapidamente a destinazione.

    «La mia macchina non ne voleva sapere di partire, temo sia la batteria» gli stava spiegando Celeste.

    «Non pensare a quello adesso.»

    «Mi hanno chiamato dicendo che ha avuto un paio di episodi di apnea... Era da tempo che non succedeva più.»

    «Okay.» Dimenticò di mettere la freccia a una ro­ta­toria e l'autista di un'altra auto suonò il clacson, in­di­spettito. Accidenti!, pensò. Faceva quella strada di notte e di fretta ogni volta che lo chiamavano dal­l'o­spedale. Doveva restare concentrato sulla guida.

    «Ha anche la febbre e le stanno facendo degli esami del sangue.» Ben non rispose e si concentrò sulla gui­da mentre lei continuava a raccontare con tono agitato. «Li avevo pregati di chiamarmi se ci fossero stati dei problemi» singhiozzò, «anzi avevo chiesto di chia­marmi per qualsiasi cosa, quindi forse la situazione non è così grave...»

    Ben ne dubitava fortemente, anche se non voleva a­gitarla più di quanto già non fosse. Ricordava quando, in mensa, continuava a girare nervosamente il cuc­chiaino nella ciotola vuota dello yogurt e aveva notato quanto fosse dimagrita e nervosa. Per di più gli aveva raccontato che le infermiere l'avevano praticamente costretta ad andare una notte a casa, quindi non l'a­vrebbero certo chiamata nel cuore della notte per un nonnulla.

    «Ma stava andando così bene!» insisteva Celeste, anche se lui non aveva aperto bocca, «altrimenti non l'avrei mai lasciata sola.» Oddio, pensò Celeste, per­ché so­no sempre così in ansia per la mia piccolina? Quando smetterò di avere paura?

    Aveva superato il primo trimestre, poi le trenta set­timane, era riuscita ad abbassare la pressione, poi a­ve­va avuto un travaglio da incubo, aveva superato quelle prime infernali notti in Terapia Intensiva e ora, perché anche questo?

    Una gamba le tremava in modo incontrollabile. Quando finirà? Quando in­co­min­cerò a vivere senza il terrore di perderla?

    Nel frattempo erano arrivati all'ospedale, ma Ben non si allontanò, parcheggiò nella zona riservata ai medici e utilizzando il suo tesserino entrarono di­ret­ta­mente senza dover passare dal Pronto Soccorso.

    «Come sta?» Celeste tremava come una foglia men­tre faceva il rituale lavaggio delle mani. Il reparto era illuminato a giorno, ma alcune culle erano coperte per simulare il buio notturno.

    Alcune, ma non quella di Willow.

    Intorno ad essa c'era un affollamento di medici e tu­bicini maggiore della notte in cui era nata, e Celeste fu grata all'infermiera di turno che le venne incontro per aggiornarla.

    «È stabile, Celeste» le disse con voce sicura e gen­tile. Sentire il braccio di Ben che le circondava le spal­le la tranquillizzava non poco mentre ascoltava quello che era successo. «Ci ha fatto preoccupare un paio di ore fa» continuò l'infermiera, «ha avuto un episodio di apnea, non che qui non siamo abituati a vederne, ma poi ne ha avuto un altro e ha incominciato a respirare a fatica. Le abbiamo misurato i gas del sangue ar­te­rio­so e l'abbiamo di nuovo messa sotto terapia re­spi­ra­to­ria. In più il neonatologo ha voluto farle un'e­mo­col­tu­ra.»

    «Perché? Ha contratto un'infezione?»

    «Ai raggi X mostra delle zone disomogenee» con­ti­nuò la donna, «così l'abbiamo messa sotto terapia an­ti­biotica.»

    Nel frattempo erano arrivati davanti alla culla e a Celeste si strinse il cuore perché le sembrò di essere tornata al giorno della sua nascita, nonostante tutti i progressi che la piccola sembrava aver fatto. Di nuovo era tutta piena di tubi e faticava a respirare.

    Ben avrebbe voluto fuggire, invece rimase con­ti­nuando a tenere il braccio intorno alle spalle di Ce­le­ste. Ma invece della piccola si ostinava a guardare le attrezzature, anche se si rendeva conto di essere ogni giorno più coinvolto in un mondo a cui non voleva ap­partenere.

    «Ma stava bene» singhiozzava Celeste guardando Bron,­ l'in­fer­mie­ra di turno, «avrebbero dovuto tra­sfe­rirla nella nursery la settimana prossima.»

    «Si tratta solo di un imprevisto» la rassicurò Bron con voce tranquilla. «Ricordati che la prima volta che sei salita qui ti abbiamo subito detto che questi pic­co­lini hanno degli alti e dei bassi. Ora, Willow ha fatto dei progressi eccezionali... forse questo piccolo crollo era prevedibile.»

    Le impedirono di prenderla tra le braccia, ma le la­sciarono tenere una manina tra le sue e Celeste dovette accontentarsi di quello.

    «Guarda, sta arrivando il dottor Heat, lo hai già co­nosciuto» le disse Bron.

    «Ma non è il medico che segue Willow.»

    «No, è il medico di turno questa notte. Vai a sederti nella saletta per i genitori e gli dirò di raggiungerti, così ti spiegherà tutto.»

    «Lei è il padre?» chiese l'uomo rivolto a Ben.

    «No, sono solo un amico.» Ma il dottor Heat non lo stava già più ascoltando perché un'infermiera era a ve­nuta a chiamarlo con urgenza.

    Con un senso di colpa Celeste capì che lo chia­ma­vano per il bimbo nella culla accanto a quella di Willow. «Tu non sei solo un amico» disse Celeste a Ben, «perché tutto quello che ti riguarda non può essere ri­dotto alla parola solo

    Ben cercò di non dare troppa importanza a quel commento, probabilmente dettato dalla gratitudine per il sostegno che le aveva dato in tutte quelle settimane, e soprattutto perché in quella notte infernale non era da sola ad aspettare l'esito degli eventi.

    Aspettarono il dottor Heat per un'eternità e lei non poté nemmeno avvicinarsi a Willow perché stavano tutti lavorando intorno alla culla accanto e la sua pre­senza sarebbe solo stata d'intralcio. Ben pensava che quel lavoro a volte era davvero ingrato, e quando vide arrivare i genitori del bimbo, pallidissimi e angosciati, ringraziò il cielo di non essere lui il dottor Heat o l'in­fermiera che doveva parlare con loro. Al contrario di Celeste poterono prendere in braccio il loro bambino perché pur­trop­po per lui era troppo tardi, non c'era più nessuna speranza.

 

    «Siamo molto preoccupati per Celeste» esordì il dottor Heat.

    Ben aveva aspettato con lei fino a quando il collega era arrivato con le lastre e i risultati degli esami del sangue e aveva risposto a tutte le domande che Ce­le­ste, angosciatissima, gli aveva fatto. Finalmente la fe­cero sedere accanto alla culla di Willow.

    «Io non sono il padre della bambina» li interruppe Ben.

    «È il suo compagno?»

    «No» rispose Ben scuotendo la testa.

    «Mi scusi» borbottò il dottor Heat, «pensavo che lo fosse perché Bron mi ha riferito che qualche volta di notte è salito a vedere la piccola.»

    Per la prima volta da quando era adulto Ben arrossì; gli sembrava di essere stato colto sul fatto mentre fa­ceva qualcosa di sbagliato. Effettivamente era andato lassù alcune volte, ma sempre quando era sicuro che Celeste non ci fosse perché voleva vedere con i suoi occhi come stava la bambina. Ma era chiaro che l'a­ve­vano notato.

    «Lavoro qui come medico anch'io» disse Ben schia­rendosi la voce, «e siccome sono amico di Celeste vo­levo assicurarmi delle condizioni della piccola anche perché, incidentalmente, sono stato io a farla nascere.»

    «Capisco...» rispose il collega, anche se era e­vi­den­te che non era così.

    «Diceva che è preoccupato per Celeste?» continuò Ben.

    «Sa, pensavo che lei fosse il suo compagno, mi scu­si, ma è stata una nottataccia» si scusò il dottor Heat.

    Ben capì che a quel punto avrebbe potuto tran­qui­l­lamente alzarsi e tornare a dormire per quel poco che rimaneva della notte, ma non voleva farlo.

    «Siamo ottimi amici e se c'è qualcosa che posso fa­re...»

    «Quella ragazza ha bisogno di staccare un poco. È stata davvero sfortunata che Willow sia stata male proprio la notte in cui eravamo riusciti a convincerla ad andare un po' a casa e ora, dopo la morte del pic­co­lo proprio accanto a Willow è ancora più agitata» gli spiegò il dottor Heat. «È uno stato molto frequente per le madri in una situazione come questa, ma purtroppo questa notte niente ha funzionato per il meglio.»

    «Cosa posso fare?» chiese Ben.

    «Non è solo questione di una notte» dichiarò il col­lega alzandosi e stringendogli la mano prima di tor­na­re in reparto, «Celeste ha bisogno di un supporto co­stante, regolare, ha bisogno che qualcuno la obblighi a staccare un po', ovviamente quando Willow starà me­glio.»

    Il che significava diventare sempre più coinvolti con tutte e due, cosa che Ben categoricamente ri­fiu­ta­va. Così prese una decisione. «Celeste, dammi le chia­vi della macchina. Ci penso io a fartela riparare.»

    «Non disturbarti, ci penserò io domani» replicò lei.

    «Celeste.» Non voleva mettersi a litigare o di­scu­te­re su quella faccenda. «Tu hai assolutamente bisogno che la tua macchina parta quando ti serve, per il bene di Willow. Per cui, dammi quelle chiavi e se davvero si tratta della batteria come dici tu, vorrà dire che la farò ricaricare o sostituire e se c'è qualche altra cosa che posso fare per te, ti prego, dimmela.»

    La vide chiudere gli occhi, come se fosse travolta da tutta quella situazione. Avrebbe voluto salvarla da quella marea, solo che aveva troppa paura.

    Aveva paura di amarla, anche se in qualche modo già l'amava. Solo che il problema non era Celeste, era Willow.

Ogni mercoledì un nuovo capitolo!
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