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Vicini di casa, vicini di cuore

di CAROL MARINELLI

Celeste: Il mio nuovo vicino di casa è davvero affascinante e oltretutto lavoriamo nello stesso posto. Ma adesso ho altro a cui pensare, devo assolutamente concentrarmi sulla mia vita. Forse Ben può rivelarsi un piacevole diversivo.
Ben: Un altro anno, un nuovo inizio, quello che mi ci vuole per dimenticare. Allora perché mi sento così nervoso? Forse sono solo agitato per il mio primo giorno di lavoro. E poi, ci mancava pure la strana attrazione che provo per Celeste. Possibile che uno come me abbia voglia di una relazione stabile?

6

«Ciao, Celeste!» le urlò vedendola arrivare. La strada era piena di gente perché quando a Melbourne si spar­geva la voce che c'era una casa all'asta si radunava sempre una piccola folla che andava a curiosare.

    «Ciao» rispose lei proseguendo la sua passeggiata.

    «Ma non ti avevano detto di riposare?»

    «Infatti, sto camminando intorno a una casa invece che sulla spiaggia. Mi sta venendo la claustrofobia so­lo all'idea che presto sarò ricoverata. Spero almeno che là dentro ci sia l'aria condizionata.» Gli rivolse uno dei suoi vivaci sorrisi. «Grazie mille per ieri, co­munque.»

    «Figurati! Mi fa piacere che tutta quella roba sia u­tile a qualcuno.»

    «Intendevo per la telefonata che hai fatto, mi ri­co­verano lunedì.»

    «Fantastico!»

    «Più tardi preparerò una borsa... non penso proprio che dopo mi lasceranno tornare a casa.»

    Poi si unì alla folla e Ben, invece di guardare le ca­mere e i soffitti, guardava lei, voleva lei. Mentre gi­ra­va tra le stanze avrebbe voluto sentire i suoi com­men­ti, non quelli dell'agente immobiliare, e lei ne stava fa­cendo parecchi e tutti appropriati.

    Era una ragazza del tutto incredibile, e anche se po­teva a malapena permettersi uno spazio grande come il salotto, faceva domande curiose su ogni dettaglio con una faccia tosta inconcepibile.

    Celeste adorava visitare le case, gironzolare per le stanze, immaginare che fossero sue e sperare che pri­ma o poi lo sarebbero state.

    La cucina era terrificante, ma l'agente immobiliare la fece superare velocemente per condurli tutti al pia­no di sopra che era davvero fantastico: tutte le stanze, bagni compresi, godevano di una splendida vista sul mare.

    «Non ci sono tende» osservò Celeste e Ben rise per­ché an­che lui aveva pensato la stessa cosa. «Com'è possibile avere finestre a tutta altezza in bagno e nem­meno una tenda?»

    «Il vetro è trattato» spiegò l'agente immobiliare con sussiego, «si può vedere fuori, ma non viceversa. Ora vi mostro la camera matrimoniale.»

    Celeste non riuscì a trattenere un gridolino di stu­po­re: nel centro c'era il letto e tutt'intorno correva una balconata arredata con seggioline e un tavolino di vi­mini.

    «Anche qui le finestre sono trattate?» domandò con l'aria da intenditrice riuscendo a strappargli un sorriso. Stava prendendo appunti su un blocco come se fosse realmente intenzionata a partecipare all'asta e uscì sul balcone per osservare meglio il colpo d'occhio. L'a­gente immobiliare la invitò a tornare dentro e a rag­giungere tutti gli altri. «Può spostarsi un momento per favore?» chiese con un tono secco che non sfuggì a Ben, il quale represse a fatica un moto di rabbia.

    «Questa stanza è perfetta per una nursery» stava ora dicendo l'agente a una giovane coppia ma, nonostante le condizioni più che evidenti di Celeste, quando gli fece una domanda lui non la degnò di una risposta.

    Lei arrossì indignata e cercò Ben con lo sguardo.

    «La mia compagna le ha fatto una domanda» in­ter­venne Ben gelido vedendo Celeste con le guance ar­rossate per l'umiliazione.

     L'agente immobiliare si rivolse a lei con aria mel­li­flua. «Mi scusi, signora, cosa desiderava sapere?»

    «Non importa» replicò Celeste con sussiego. Poi si rivolse a Ben. «Grazie per il tuo intervento» gli disse mentre gironzolavano all'esterno della casa.

    «È stato un piacere... quell'uomo è insopportabile.»

    Celeste adorava le aste e l'atmosfera di attesa che vi si creava intorno. Ora si stava entrando nel vivo della contrattazione e lei era tutta elettrizzata. Era la cosa più eccitante che le fosse capitata da parecchi giorni.

    Ben stava cercando di concentrarsi, ma il suo sguar­do era sempre rivolto a lei. Non aveva ancora fatto un'offerta e adesso doveva solo aspettare e vedere co­me si muoveva il mercato. Ma proprio mentre sarebbe dovuto essere concentrato al massimo, il pensiero tor­nava sempre a lei. L'asta languiva e a quel punto Ben fece la sua prima offerta. Vide la luce di sorpresa negli occhi di Celeste: non aveva la minima idea che in­ten­desse partecipare all'asta, anche perché lui non ne a­ve­va parlato con nessuno. La piccola folla si rianimò, e lei gli sorrise, contenta ed eccitata.

    Ben dovette alzare l'offerta perché qualcun altro a­veva aumentato il prezzo e lei di nuovo sorrise. Poi dovette alzare un'altra volta la cifra; quel suo sorriso lo incoraggiava. A un tratto però Celeste non sorrise più; aveva sul viso un'espressione sconvolta tanto che Ben non si accorse che il battitore lo stava richia­man­do. Quando se ne accorse, si confuse e fece un'offerta eccezionalmente alta. Ignorando i commenti della fol­la si chinò su di lei.

    «Temo che mi si siano rotte le acque!» gemette la ragazza.

    «Stai tranquilla, ci sono qui io.»

    «Ma sono solo alla trentaquattresima settimana!»

    «Trentaquattro settimane sono sufficienti, vieni a sederti, ora chiamo l'ambulanza.»

    «Non c'è nessun posto dove sedersi» gemette lei. «Ben, ho paura che stia per nascere.»

    L'agente immobiliare venne a congratularsi per l'ac­quisto, ma Ben non lo ascoltava già più. «Dobbiamo portarla dentro.»

    «Mi scusi?» chiese l'agente.

    «Ben...» piagnucolò lei, tremando di paura, «ho tanto male!»

     «Dobbiamo portarla dentro» ripeté prendendola in braccio e dirigendosi verso l'entrata.

    «Ma non si può!» esclamò l'agente immobiliare pie­no di sussiego.

    «Senta, ho appena comprato questa casa a un prez­zo irragionevole» sibilò Ben, «e questa ragazza sta per partorire. Ha bisogno di privacy. Vuole che lo faccia in mezzo alla strada?»

    Ben era così autorevole che l'uomo rimase senza parole. «E adesso chiami un'ambulanza e li avvisi che si tratta di un parto prematuro. Subito!» Erano in giar­dino sotto il salice e lei si stava contorcendo tra le sue braccia in preda ai dolori. Ben si accorse con orrore che non c'era modo di trasportarla dentro. «Dica anche che c'è un medico con lei!» gridò all'agente.

 

    «Posso fare qualcosa?» Doug, l'uomo che aveva sa­lutato tutte le mattine, quello che si occupava della barca e da cui presumibilmente aveva appena ac­qui­stato quella casa era lì, pronto e disponibile.

    «Porti degli asciugamani.»

    La moglie dell'uomo che aveva parlato corse a prenderli mentre lui continuava a ripetersi che in fon­do si trattava solo di un parto anche se prematuro e che era perfettamente in grado di cavarsela.

    «Celeste, ascoltami bene.» Le aveva abbassato le mutandine e la stava visitando: era chiaro che l'am­bu­lanza non sarebbe mai arrivata in tempo. «Questo bimbo è prematuro e dobbiamo farlo nascere il più lentamente possibile per evitare danni cerebrali. Non devi assolutamente spingere, vogliamo che nasca il più lentamente possibile.»

    Lei non era mai stata così terrorizzata: oltre al do­lo­re, c'era il pensiero che il suo piccolo nascesse così in anticipo e praticamente in mezzo a una strada. Doveva combattere contro l'impulso irrefrenabile di spingere e cercava di respirare lentamente come le suggeriva Ben per rallentare la nascita il più possibile. «Non riesco a trattenermi, mi viene da spingere» piagnucolò.

    «Tu non te ne sei accorta, ma il tuo corpo si stava preparando al parto da ore.»

    Ben aveva ragione: era tutta la mattina che si sen­ti­va inquieta, aveva provato a leggere, a dormire... ma niente sembrava calmarla. Si era fatta una doccia e poi aveva deciso di andare a vedere l'asta. «Sta arrivando» gemette.

    E infatti non c'era più niente che riuscisse a tardare la nascita del bambino, ma era felice che almeno Ben fosse lì con lei. Che cosa avrebbe fatto se le si fossero rotte le acque mentre era a casa da sola?

    «Ce l'hai quasi fatta!» gridò Ben, «sei bravissima!»

    Celeste continuava a respirare come le avevano insegnato al corso prenatale, cercando di non spingere. «Mi spiace di averti coinvolto in tutto questo» riuscì a mormorare.

    «Io invece sono felice di essere qui con te» s'in­ter­ruppe perché si era accorto che il cordone era avvolto intorno al collo, anche se per fortuna non strettamente. Però non era questo l'unico motivo per cui si era in­ter­rotto: aveva fatto partorire centinaia di donne, ma mai in una situazione come quella. Col cuore in gola prese tra le mani quella minuscola testa che si affacciava al mondo seguita da un corpicino pallido e inerte. Lo po­sò sul ventre di Celeste, massaggiò la schiena, sol­le­ci­tò la pianta dei minuscoli piedi senza ottenere nessun risultato. Quella creatura doveva assolutamente i­ni­zia­re a respirare. Era passato quasi un minuto, ma la bim­ba non reagiva: era apatica e cianotica e il suo piccolo cuore batteva con lentezza preoccupante. Pregò che l'ambulanza arrivasse in fretta per poterle applicare l'ossigeno. Girò la piccola sulla schiena continuando a massaggiarla e finalmente percepì un leggero respiro.

    «Non piange!» singhiozzò Celeste.

    «Lei piangerà, te lo prometto.»

    «Lei?»

    «Sì, è una bimba e in questo momento ha bisogno di stare al caldo.» Le avvolse entrambe con gli a­sciu­gamani mentre finalmente si sentiva il suono delle si­rene che si stavano avvicinando.

    «Ha ancora il cordone attaccato» osservò la donna che aveva portato le salviette e Ben realizzò che do­ve­va tagliare il cordone ombelicale. Era molto pre­oc­cu­pato dalla mancanza di reazioni della neonata che re­spirava a fatica e a ogni sospiro le uscivano delle mi­nuscole bollicine dalla bocca. Finalmente i paramedici arrivarono, le aspirarono il liquido dalle vie aeree e le misero la maschera d'ossigeno mentre Ben tagliava il cordone.

    «Dovremmo avvisare l'ospedale via radio.» Il pa­ra­medico guardò Ben e i due uomini si capirono senza bisogno di parlare. Il dilemma era: metterle la flebo lì per cercare di stabilizzarla o correre a sirene spiegate in ospedale?

    «Portiamola in ospedale al più presto» decise Ben.

    Il paramedico la prese in braccio e corse verso l'am­bulanza. «Mando subito un'altra ambulanza per la ma­dre» gli assicurò.

    «No, voglio andare con lei» singhiozzò Celeste che tremava come una foglia.

    «La bambina deve andare in ospedale il più presto possibile» le spiegò Ben con un tono che non am­met­teva repliche. «Può restare con lei un momento?» chiese alla donna che nel frattempo aveva portato una coperta e dei cuscini per farla stare più comoda. «De­vo aiutarli a sistemare la piccola e torno subito.»

    «No» singhiozzò Celeste, «vai almeno tu con lei, ti prego, ti prego.»

    Non c'era tempo per discutere, così salì sul mezzo anche lui e tenne in braccio la neonata mentre l'am­bu­lanza sfrecciava per la città. I piccoli polmoni si sta­va­no riempiendo di liquido e lui teneva la mascherina un po' scostata in modo che il paramedico potesse infilare la cannula per l'aspirazione. L'indicatore che le a­ve­va­no applicato all'orecchio segnalava che la saturazione di ossigeno era bassa ma non eccessivamente pre­oc­cu­pante.

    L'ambulanza cercava disperatamente di farsi strada tra la folla di quelli che facevano lo shopping del sa­bato e Ben sentiva la tensione salire alle stelle. Sol­le­vò leggermente la mascherina e anche se il piccolo viso non era ancora stato ripulito vide chiaramente dei riccioli neri e degli occhi incredibilmente blu che sem­bravano fissarlo intensamente. Alla fine fu lui a di­sto­gliere lo sguardo, in fondo non era il padre, e la mam­ma era solo una cara amica.

    Quando finalmente arrivarono all'ospedale, vide Belinda sulla porta che li aspettava. Come si spa­lan­ca­rono i portelloni, lui corse verso la rianimazione dove la culla termica era pronta e Raji li stava già at­ten­den­do. Solo allora posò quel fagottino e si rese conto di quanto fosse terrorizzato: un sudore gelido gli per­cor­se la schiena e quando vide tutto lo staff raccolto in­torno alla culla capì che non aveva esagerato a pre­oc­cuparsi. Quella creatura stava molto, molto male. An­dò al la­vandino e bevve direttamente dal rubinetto, poi il pa­ra­me­dico gli passò le consegne e lui si diresse verso i col­leghi.

    Raji aveva infilato una cannula particolare e stava ripulendo i polmoni molto in profondità, il pediatra a­veva inserito un catetere ombelicale per som­mi­ni­strar­le fluidi. La bambina sembrava un po' più vitale, col faccino corrugato e i piccoli pugni che si aprivano e chiudevano.

    «Al momento della nascita l'indice di Apgar era molto basso» spiegò Ben, «anche perché è stato un parto molto veloce.»

    «Il paramedico mi ha riferito che è alla tren­ta­quat­tresima settimana» osservò il pediatra, «per fortuna è abbastanza grossa. Sai dove è stata seguita la madre?»

    «Sono certa che Ben non ha fatto in tempo a chie­derlo» intervenne Belinda. «Eri all'asta della casa, ve­ro?»

    «In realtà» Ben si schiarì la voce, «questa è la figlia di Celeste.»

    «Intendi dire della nostra Celeste?»

    «Sì, abita nella stessa strada dove c'era l'asta e deve essere passata a curiosare.»

    «È stata una vera fortuna che tu fossi lì.»

    «Celeste soffre di diabete gestazionale» continuò Ben, «e questo spiega perché la bambina è abbastanza grossa e la gravidanza è stata seguita qui da noi.»

    «Qualcuno sa se aveva altri problemi?»

    «Ipertensione» intervenne Meg, «infatti è stata mes­sa in maternità a rischio un paio di giorni fa.»

    «La pressione era alta e oggi mi era sembrata molto gonfia e ho avuto la sensazione che stesse andando in gestosi» aggiunse Ben. «Credo che dovesse essere ri­coverata lunedì.» Faceva un caldo terribile, lui era su­dato fradicio e il rumore dei macchinari gli per­fo­ra­va­ dolorosamente le orecchie. «Vado a prendere una boc­cata d'aria» dichiarò.

    «Forse è meglio che prima ti cambi» osservò Be­lin­da, «guarda come sei ridotto!»

    Fece una breve doccia e poi, invece di asciugarsi, sedette sulla panca con la testa tra le mani. Cosa sa­rebbe successo se fossi stato a casa? Quelle parole gli risuonavano tormentosamente nella testa. Erano anni che si domandava cosa sarebbe successo se fosse ar­ri­vato a casa un po' prima. Tutti gli avevano detto che per Jen non avrebbe potuto fare assolutamente nulla: l'emorragia era troppo estesa... ma la piccola? Se lui fosse stato a casa avrebbe potuto essere salvata? Era scosso da emozioni contrastanti.

    Sollievo, rimpianto e persino risentimento perché questa bambina era viva e la sua piccola no. Ma il ri­sentimento svanì presto, stemperato in una ridda di e­mozioni. Ripensò a quella piccola vita che era nata tra le sue mani, alla madre per cui aveva provato un sentimento diverso da quello di un normale medico. Per un momento aveva avuto la tentazione di restare con lei invece di accompagnare la piccola in ospedale a si­rene spiegate. Tutto questo era pazzesco!

    Si alzò, si vestì con gli indumenti da sala operatoria e prese una decisione: non doveva assolutamente farsi coinvolgere nella vita di Celeste, a qualunque costo.

Ogni mercoledì un nuovo capitolo!
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