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Vicini di casa, vicini di cuore

di CAROL MARINELLI

Celeste: Il mio nuovo vicino di casa è davvero affascinante e oltretutto lavoriamo nello stesso posto. Ma adesso ho altro a cui pensare, devo assolutamente concentrarmi sulla mia vita. Forse Ben può rivelarsi un piacevole diversivo.
Ben: Un altro anno, un nuovo inizio, quello che mi ci vuole per dimenticare. Allora perché mi sento così nervoso? Forse sono solo agitato per il mio primo giorno di lavoro. E poi, ci mancava pure la strana attrazione che provo per Celeste. Possibile che uno come me abbia voglia di una relazione stabile?

2

«Celeste, che cosa fai qui?» le domandò Meg, la capo infermiera.

    Celeste le aveva appena consegnato un certificato di riammissione al lavoro. «Proprio ieri mi ha visitata il ginecologo e ha detto che sto bene e che posso la­vo­rare.»

    Meg scrutò il certificato, poco convinta. «Ricordati che quando ti ho mandata a casa la settimana scorsa non stavi affatto bene, ero davvero preoccupata per te.»

    «Ma adesso sto meglio, mi sono riposata e anche i valori del glucosio sono rientrati nella norma perché ho seguito una dieta sana, ho fatto yoga sulla spiaggia e lunghe camminate. Del resto ci sono persone che la­vorano fino alla quarantesima settimana.»

    «Sì, ma non in un Pronto Soccorso» ribatté Meg, «adesso a che settimana sei?»

    «Alla fine della trentesima e il medico dice che va tutto per il meglio.»

    Meg non poté che accettare la situazione anche se era convinta che non era lì che Celeste avrebbe dovuto lavorare. Così la portò a vedere i pazienti ricoverati e fece un breve riassunto della storia clinica di ciascuno.

    «Ma io non voglio lavorare nel reparto di Os­ser­va­zione!» Celeste si sentiva quasi in colpa perché le a­ve­vano affidato il compito più leggero, ma Meg la in­chiodò con uno sguardo.

    «Se il tuo medico dice che stai abbastanza bene per poter lavorare io non ho nulla in contrario, ma devo inserirti in un contesto che non mi crei problemi.»

    Celeste non poté obiettare nulla; sapeva che i col­leghi l'avrebbero tenuta sotto controllo come del resto avevano fatto da quando aveva annunciato di aspettare un bambino.

    Già scoprire di essere incinta era stato un colpo i­na­spettato, con dei risvolti che non aveva certo previsto. Da allora la sua famiglia aveva interrotto ogni tipo di rapporto con lei, specie perché si era cocciutamente ri­fiutata di dire chi fosse il padre del bimbo che por­tava in grembo. Come avrebbe potuto? Non solo a­veva scoperto che il suo boyfriend era sposato, ma per giu­nta lo era con una dottoressa che lavorava nel suo stesso ospedale. Nessuno l'avrebbe mai saputo, ma Celeste era divorata dai sensi di colpa e dalla ver­go­gna.

    Quando aveva saputo che l'avevano accettata al Bay View Hospital,che si trovava dall'altra parte della cit­tà, le era sembrato un segno del destino. Quando a­ve­va fatto la domanda non era incinta e sapeva be­nis­si­mo che avrebbe fatto meglio ad avvisarli subito del suo stato di gravidanza, ma si trovava in una tale si­tuazione che non poteva permettersi di rinunciare a uno stipendio mensile e nemmeno alla maggiore qua­lificazione che avrebbe avuto in quel prestigioso o­spe­dale. Questo avrebbe significato allontanarsi da amici e colleghi, cosa che era puntualmente successa, e ora era davvero sola.

    «Nel cubicolo numero sette c'è un ragazzo di circa diciotto anni, un certo Matthew Dale. Ha subito un lieve trauma cranico ma è in buone condizioni e qui­n­di stiamo per dimetterlo. Ben lo sta visitando proprio ora.»

    «Ben

    «Sì, il nuovo responsabile del reparto. Ha in­co­min­ciato proprio questa mattina... oh, eccolo qui!» s'in­ter­ruppe Meg. «Come va il ragazzo, Ben?»

    «Se volete il mio parere spassionato, io non me la sento di dimetterlo. Mi spiace di farvi iniziare a la­vo­rare così presto, ma...» esitò un momento quando vide Celeste, ma fece finta di non conoscerla e continuò a dare disposizioni sul paziente.

    Anche se non gli doveva nessunissima spiegazione, Celeste, per la miliardesima volta si sentì in colpa, co­me se fosse stata colta in fallo. Ma in colpa per cosa?, si domandò irritata mentre faceva il giro del reparto e accendeva le luci nelle varie stanze. Poi tornò da Matthew. In fondo si stava guadagnando da vivere anche perché in realtà non aveva altra scelta. La nursery non avrebbe accettato il piccolo fino a che non fosse stato completamente vaccinato e se si fosse fermata adesso questo avrebbe significato rimanere a casa almeno per sei mesi.

    Si sentì prendere dal panico. Ce l'avrebbe fatta? An­che lavorando a tempo pieno faceva fatica a pagare l'affitto. Stava mettendo da parte tutti i soldi che po­te­va per acquistare la carrozzina e la culla e in una sven­dita aveva comperato dei minuscoli abitini e dei pan­nolini, ma non sarebbero di certo bastati. E poi c'era il problema della sua automobile. Quando pensava a tut­to questo Celeste sentiva montarle letteralmente il pa­nico per la paura di non farcela. In quel momento sta­va trasportando delle lenzuola e pensò come in sogno che avrebbe solo desiderato sdraiarcisi sopra, ascoltare i calcetti del suo bimbo, leggere riviste sulla maternità e... riposare.

    «Va meglio? Intendo dire, dopo questa mattina» le chiese Ben facendola sobbalzare.

    «Era solo una fitta» ribadì lei con un tono un po' troppo aspro, «e, prima che tu me lo chieda, sono per­fettamente in grado di svolgere il mio lavoro. Sono stanca che tutti mi dicano che non dovrei essere qui, la gravidanza non è una malattia.»

    «Volevo solo essere gentile» si difese lui guar­dan­dola con attenzione, «e fare un po' di conversazione con la mia nuova vicina di casa.»

    Aveva reagito in modo esagerato e se ne rendeva conto. «Scusa, è che ho faticato a convincere il mio superiore che sono perfettamente in grado di lavorare e Meg mi assilla con le sue attenzioni...»

    «Tranquilla.»

    «È ovvio che l'ultima cosa al mondo che farei sa­rebbe mettere a rischio la salute del mio bimbo, ma io sto bene. »

    «Meglio così.»

    Si aspettava che iniziasse a farle una predica, in­ve­ce passò ad argomenti professionali.

    «Matthew ha vomitato e così l'ho messo in nota per una risonanza magnetica. Preferisco essere tranquillo anche perché mi sembra un po' troppo pallido, in più credo che tu debba occuparti di una ferita alla mano di un'altra paziente» dichiarò passandole una cartella, «si chiama Fleur Edwards e ha ottantadue anni. Sembra che ci sia anche la compromissione di un tendine. Pro­babilmente basterà un'anestesia locale, per cui as­si­cu­rati che faccia un pranzo leggero.»

    «D'accordo.»

    «Puoi anche fare in modo di sottoporla rapidamente a un ECG?»

    Era gentile e rilassato, non il solito primario che impartisce ordini, pensò Celeste.

    Il reparto di Osservazione assomigliava un po' alla stazione degli autobus, pensò Celeste: potevi stare lì ad aspettare qualcosa per ore e non succedeva niente, poi, all'improvviso, si piombava nel caos più com­ple­to.

    Matthew era pallido e aveva l'aria sofferente. Sua madre e la sua ragazza erano lì con lui, e Celeste i­ni­ziò a sottoporlo agli esami neurologici di base, av­ver­tendolo che si sarebbero ripetuti ogni ora, sia che fos­se sveglio o no. Poi comunicò alla famiglia gli orari delle visite e mentre parlava con loro arrivò la sua col­lega Deb, che spingeva una carrozzella con la signora Edwards.

     «Ecco qui un'altra paziente per te!» esclamò in­di­cando l'anziana signora elegantemente vestita con un completo a due pezzi bianco tutto macchiato di san­gue, «purtroppo si è ferita una mano.»

    «Sì, Ben me ne ha già accennato» rispose Celeste capendo che Deb aveva fretta. «Che mi dici della fa­miglia?»

    «La figlia la raggiungerà nel pomeriggio. Co­mun­que a parte un po' di artrite, sembra sana come un pe­sce. Come vanno le cose qui?» s'informò Deb.

    «Bene, anche se adesso sta per arrivare un caso di politrauma.» Anche se era colta da un'altra fitta, Ce­le­ste si sforzò di sorridere. Sapeva che era imprudente essere lì. Il piccolo le stava prendendo a calci il dia­framma, ma questo non era un problema della signora Fle­ur.

    «Come va, signora Edwards?» chiese con tatto.

    «Fleur. Mi chiami Fleur, la prego.»

    «Io sono Celeste e la seguirò per tutta la durata del mio turno.»

    «Ah, allora sarà lei il mio angelo custode?» osservò l'anziana signora mentre si sbucciava un'arancia che probabilmente era la sua colazione.

    «Sì, adesso le farò indossare un camice e poi la metteremo a letto e le faremo un'endovena. Le hanno già dato un antidolorifico?»

    «Sì, ma non mi sento affatto meglio, forse la benda è troppo stretta. A proposito... le spiacerebbe ac­com­pagnarmi nel bagno delle signore prima di mettermi a letto?»

    In quell'istante Matthew le lanciò uno sguardo al­lar­mato e Celeste fece appena in tempo a sistemargli una bacinella e a chiudere le tendine intorno a lui. «Non preoccuparti, Matthew, tra un secondo verrò a portarti una vestaglietta asciutta» gli mormorò, notando che era terribilmente pallido.

    «Dovrei andare al lavoro» borbottò lui, «sono già in ritardo.»

    Forse era più vecchio dei diciotto anni che di­mo­strava, pensò Celeste mentre lo costringeva a sdra­iar­si. «Sei in ospedale perché hai preso una botta in testa, te lo ricordi?» Celeste stava per schiacciare il cam­pa­nello per chiedere aiuto, ma, rapidamente come si era agitato, Matthew si calmò.

    «Mi scusi» mormorò il ragazzo con un breve sor­ri­so, «ora sto bene.»

    «Matthew, sai dove ti trovi?»

    «In ospedale.»

    Celeste controllò di nuovo le sue reazioni ne­u­ro­lo­giche e poi suonò il campanello in cerca di aiuto.»

    «È davvero urgente?» chiese Meg, «sai, abbiamo appena ricoverato un caso di politrauma.»

    Celeste guardò di nuovo il ragazzo: ora stava ap­pa­rentemente bene, ma c'era qualcosa che non la con­vin­ceva. «Ho bisogno di altri esami» dichiarò.

    Meg sbuffò. «Chiedi a Ben di venire, del resto l'ha visitato lui.»

    Celeste tornò da Fleur che aveva uno sguardo im­pensierito. «Sarò da lei tra un attimo» la rassicurò.

    «Non si preoccupi per me, si occupi di lui!» e­scla­mò l'anziana signora con voce ansiosa.

    Ovviamente quando Ben arrivò, Matthew si era ri­preso e quasi scherzava sulla sua défaillance, ri­fiu­tan­do l'ossigeno che Celeste gli porgeva.

    «Allora, come va questo ragazzo?» chiese Ben.

    «Non ho niente, sto benone!» replicò lui.

    «È vero, adesso sta bene» confermò Celeste ben sa­pendo che Ben era occupato con un paziente po­li­tra­u­matizzato ben più grave, «ma prima ha vomitato a get­to ed era confuso e agitato»

    Al contrario di tanti primari, Ben non sembrava af­fatto seccato per essere stato chiamato per un caso di poca importanza, anzi, controllò attentamente le pu­pil­le di Matthew con la pila e poi gli misurò la pressione dal momento che Celeste gli aveva riferito che aveva tentato di scavalcare le sbarre del letto per andare a la­vorare.

    «Matthew, dimmi come ti senti davvero.»

    «Bene, ho solo un po' di mal di testa...»

    «Okay, allora adesso ti faccio sdraiare e poi ti sot­to­pongo a una visita completa.»

    Ben non aveva finito di parlare che Matthew era di nuovo in preda ai conati di vomito, il volto più verde che grigio e si lamentava per dei lancinanti dolori alla testa.

    «Come si fa a chiedere aiuto qui?» chiese Ben. Ce­leste non poté fare a meno di ricordare che quello era il suo primo giorno di lavoro in quell'ospedale. Però era assolutamente sicuro di sé: aveva ignorato le pro­teste di Matthew che si rifiutava di mettere la ma­sche­ra d'ossigeno e tentava di nuovo di scavalcare il letto. Anche se il ragazzo era grande e grosso, Ben lo era molto di più. Celeste schiacciò un pulsante vicino al letto per chiedere rinforzi finché la luce sulla porta lampeggiò e alla fine si sentì una voce dall'interfono che chiedeva cosa stesse succedendo. Lo staff era an­cora impegnato con il paziente politraumatizzato, così arrivò Belinda Hamilton, la dottoressa anziana del Pronto Soccorso, una donna un po' scostante ma molto attraente, insieme a Meg e a un portantino, pronti a trasferire il paziente in rianimazione. Se Matthew fos­se sta­to ancora su una barella non sarebbe stato un problema, ma Ben dovette quasi legarlo al letto per farlo sta­re fermo.

    «Bisogna intubarlo e fargli fare una risonanza» dichiarò Ben, «potete avvisare la Neurochirurgia?»

    Celeste stava freneticamente aprendo i pacchetti che contenevano l'occorrente per intubare il ragazzo, con le mani tremanti per l'eccitazione e il cuore che le batteva forte al pensiero di come le sue condizioni fos­sero precipitate. Meg non interferì col suo lavoro e le diede solo qualche suggerimento.

    Raji, l'anestesista, arrivò proprio mentre Matthew i­niziava a inarcare il corpo in preda a una nuova crisi. Era pazzesco; in una manciata di minuti le sue con­di­zioni erano diventate estremamente critiche. Raji i­ni­ziò a iniettargli un farmaco e piano, piano il ragazzo si calmò e cominciò a respirare in modo normale.

    Celeste si dava da fare per togliere la testata del letto che non voleva staccarsi. Ben se ne accorse e lo fe­ce per lei. Era un piacere lavorare con Ben, che era sempre calmo e padrone della situazione. Ora Matthew era collegato al monitor cardiaco e Meg aiutava il portantino.

    «Dobbiamo avvisare i suoi parenti?» chiese Ce­le­ste, «sono appena andati via.»

    «Ora preoccupiamoci del paziente. È probabile che dai raggi passi direttamente in sala operatoria.»

    Celeste si guardò intorno. Il reparto di Os­ser­va­zio­ne era nel caos più completo: c'erano sacchetti aperti ovunque, la testata del letto giaceva abbandonata in un angolo, e bisognava ripulire e riordinare tutto.

    «Certo che se pensavo di farti trascorrere un po­me­riggio tranquillo...» scherzò Meg, ma subito suonò il suo cicalino e dovette scappare via.

    Celeste trasse un lungo respiro, poi si voltò e si ri­cordò di Fleur che era stata zitta nel suo angolo senza disturbare.

    «Guarirà, vero?» chiese la donna angosciata.

    «Penso di sì» la rassicurò Celeste mentre l'anziana e dignitosa signora si copriva la faccia con le mani e scoppiava a piangere. «Mi sono bagnata i pantaloni!» confessò con voce tremante.

    «È tutta colpa mia» la rassicurò Celeste, «con que­sto trambusto mi sono dimenticata di accompagnarla alla toilette!»

    Ben stava telefonando ai genitori di Matthew per spiegare loro cosa era successo al ragazzo mentre Ce­leste e Fleur erano andate in bagno. I pantaloni erano in un sacchetto appeso a un trespolo mentre Fleur era seduta su una seggiolina per lavarsi.

    «Smettiamo di chiederci scusa a vicenda, d'ac­cor­do?» propose Celeste.

    Fleur le sorrise. «Stiamo per diventare mamme o sbaglio?» Poi cambiò argomento. «Non voglio che mia figlia pensi che io sto perdendo le mie facoltà mentali, è stato un semplice incidente, desidero che continui ad avere fiducia in me.»

    «A proposito, che ne dice se le risciacquo i pan­ta­lo­ni? In ogni caso sono sporchi di sangue e dirò a sua fi­glia che è questo il motivo per cui li ho dovuti lavare.»

    «E le mie mutandine?»

    «Le ho già lavate e sono stese all'aperto per a­sciu­garsi più in fretta.» Celeste a volte era molto pratica ed efficiente. «Prima che io abbia finito il mio turno saranno già asciutte e nessuno saprà mai nulla di que­sto piccolo incidente.»

    «Sei molto gentile.»

    Celeste sorrise: aveva visto centinaia di colleghe in­filare vestiti sporchi nelle borse che i parenti por­ta­va­no a casa. Lei non poteva certo cambiare il mondo, ma lavare un paio di mutandine non le sembrava un gros­so problema.

    «Per pulire il sangue ci vuole l'acqua fredda» sen­tenziò Fleur e Celeste apprezzò l'esperienza della sua paziente. «Già che ci siamo, ti spiace lavarmi bene la schiena?» chiese la donna con un po' di riluttanza, «purtroppo io non ci arrivo.»

    «Certo!» La schiena di Fleur era tutta ingobbita dal­l'artrosi, per cui era logico che non riuscisse ad ar­ri­varci con le braccia.

    «Ho comprato una spazzola speciale dal far­ma­ci­sta» le spiegò la donna, «sai, di quelle col ma­nico lun­go, «ma purtroppo non riesco nemmeno con quella.»

    Celeste fece quello che Fleur le aveva chiesto e poi si azzardò a dirle che forse aveva bisogno di qualcuno che l'aiutasse.

    «Non se ne parla nemmeno!» dichiarò fermamente la donna, «finché anche solo una delle mie mani fun­zionerà mi arrangerò da sola.»

    «Ne sono convinta, ma si ricordi che esistono spaz­zole speciali con il manico ricurvo. Non sono sicura che nel suo caso possano funzionare, ma vale la pena di provare.»

    «Io voglio restare indipendente» ripeteva o­sti­na­ta­mente Fleur.

    «Infatti un attrezzo di questo genere la potrà solo aiutare... provi a pensarci.»

    Ben, seduto alla scrivania da cui aveva dovuto fare la penosa telefonata ai genitori di Matthew, aveva col­to il succo della conversazione e aveva compreso che Fleur ave­va ragione, e che Celeste era decisamente una persona di animo gentile. Era così facile tenersi impegnati lavorando in Pronto Soccorso, rifletté, an­che se lui si era in qualche modo indurito. Era molto più semplice avere a che fare con pazienti e non con persone che avevano intorno una famiglia in ansia e a­mici, e per i quali forse un futuro non ci sarebbe mai stato. Eppure, mentre osservava Celeste che spingeva la se­dia a rotelle di Fleur, e tutte e due sorridevano, si domandò se aveva fatto la scelta giusta. Perché la gra­vidanza era un evento che lo colpiva nel profondo, era una delle tante cose a cui non riusciva ancora a pen­sa­re. Ognuno aveva la sua storia, persino Belinda gli a­veva raccontato di un suo fratello che era stato operato e salvato in extremis dopo una brutta ferita alla testa.

    Ognuno di loro aveva il suo passato, ripeté a se stesso, e lui aveva difficoltà a fronteggiare una donna incinta e preferiva una fila di persone da visitare. Non avrebbe voluto essere così duro, ma non riusciva a far­ne a meno. Tuttavia vedendo come Celeste, che ogni tanto si massaggiava la schiena, si affannava per stare dietro ai pazienti, metteva Fleur a letto con dolcezza, doveva distrarre lo sguardo dal suo ventre prominente e resistere alla tentazione di fuggire lontano.

    «Ho parlato con i genitori di Matthew» le raccontò mentre sistemava la testata del letto e rimetteva a po­sto la bombola dell'ossigeno. Erano compiti che a­vrebbe potuto delegare a chiunque, ma preferiva farli lui stesso. «Stanno tornando, se li vedi prima tu av­vi­sami.»

    «Certo» rispose lei piegando un telino, «pensi che se la caverà?»

    «Ora è sicuramente già in sala operatoria, quindi penso proprio di sì. In ogni caso ti terrò aggiornata.»

    E meno male che doveva avere un turno tran­qui­l­lo!, pensò, mentre osservava che tutti gli otto letti del reparto erano occupati.

    Finalmente il reparto era ripulito e in ordine come sempre.

    Fleur aveva accettato di farsi visitare pur temendo un lungo periodo di ricovero e        ringraziò Celeste con un sorriso complice. «Mia figlia non si accorgerà di nulla.»

    «La sala operatoria è pronta e con ogni probabilità la chiameranno a breve.»

    «Sei sicura che resterò qui solo una notte?»

    «Se tutto andrà bene, cosa di cui sono convinta, ci vedremo domani. Riprendo servizio alle sette.»

    «Ragazza mia, tu lavori troppo. Mi auguro che il tuo ragazzo ti abbia preparato la cena, così riposerai un po'.»

    «Certo!» rispose lei, poi arrossì vedendo che Ben era entrato. «Buonanotte, Fleur!» Si girò verso di lui. «Non volevo che si preoccupasse per me» mor­mo­rò.

    «Scusa?»

    Celeste era imbarazzata. «A volte è più facile la­sciar cre­de­re alle persone di una certa età che c'è qual­cuno che ti aspetta a casa, anche se non è vero» con­fessò. Arrossì immaginando che a Ben non importava un bel niente dei suoi problemi. «Notizie di Matthew?» chiese in tono professionale.

    «Era proprio per questo che stavo venendo da te. Sembra che l'abbiamo letteralmente preso per i ca­pel­li, anche se quel sanguinamento perioculare è stato e­videnziato solo dalla TAC. In sala operatoria gli han­no ripulito il cervello da un diffuso e­ma­to­ma. Sono stati tempestivi, perché molti a­vrebbero esitato di fronte a dei sintomi così vaghi.»

    «Quindi sta meglio. Ho letto di molti pazienti che sono stati salvati da interventi invasivi come questo, anche se i sintomi non facevano affatto pensare a una situazione così grave.»

    «Ora è in Terapia Intensiva e, come ben sai, le prossime quarantotto ore saranno determinanti per lui, però ci sono delle buone speranze che possa ca­var­se­la.»

    Celeste fece il passaggio delle consegne e si diresse verso casa con la sua auto che ogni giorno era più ma­landata; era sicura che prima o poi l'avrebbe lasciata a piedi. Scese per aprire il cancello e scoprì che qualcun altro l'aveva fatto al posto suo.

    «Chiudo io» dichiarò Ben, mentre lei si avviava verso casa maledicendo una volta di più il pa­dro­ne del condominio, troppo tirchio per mettere un cancello au­tomatico.

    Ben le aprì anche le porte del garage e attese che lei fosse entrata prima di chiuderle. Gliene fu molto grata perché o­gni sforzo le pesava in maniera enorme.

    «Grazie mille» mormorò, troppo stanca anche per regalargli un sorriso.

    «Non preoccuparti.» Ben rifece la stessa manovra con la sua auto e con aria indifferente continuò a non guardarla, perché probabilmente, se l'avesse fatto, lei sarebbe scoppiata in lacrime.

    Era molto stanca, avrebbe dovuto mangiare qual­co­sa, ma era troppo fiacca per mettersi a cucinare, così si preparò un tazzone di cereali e un bicchiere di latte.

    Dopo una doccia veloce tirò fuori un'uniforme pu­li­ta per il giorno dopo, controllò che l'antifurto fosse in­serito e si buttò sul letto, troppo debole anche solo per piangere e per pensare. L'indomani avrebbe dovuto es­sere in ospedale alle sette meno dieci.

Ogni mercoledì un nuovo capitolo!
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