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Vicini di casa, vicini di cuore

di CAROL MARINELLI

Celeste: Il mio nuovo vicino di casa è davvero affascinante e oltretutto lavoriamo nello stesso posto. Ma adesso ho altro a cui pensare, devo assolutamente concentrarmi sulla mia vita. Forse Ben può rivelarsi un piacevole diversivo.
Ben: Un altro anno, un nuovo inizio, quello che mi ci vuole per dimenticare. Allora perché mi sento così nervoso? Forse sono solo agitato per il mio primo giorno di lavoro. E poi, ci mancava pure la strana attrazione che provo per Celeste. Possibile che uno come me abbia voglia di una relazione stabile?

4

Al lavoro ovviamente s'ignoravano, o meglio non fa­cevano mai nessun accenno alle serate trascorse in­sie­me davanti alla televisione o sulla spiaggia.

     A volte, mentre si trovava nella stanza dello staff con Deb che continuava a domandarsi se Ben l'a­vreb­be mai invitata a uscire, mentre lui le aveva già con­fessato di non averne nessuna intenzione, o sentiva gli stessi discorsi da Belinda, Celeste ostentava la mas­si­ma indifferenza, ma in cuor suo le avrebbe volentieri strangolate.

    Ben le piaceva molto, il che era del tutto normale dal momento che la metà delle donne del reparto e­ra­no pazze di lui. Qualche volta però, ma solo qualche volta, aveva la sensazione di piacergli un poco anche lei. Ovviamente si ripeteva che erano solo fantasie, e­sattamente come quelle di Deb, perché non c'era un solo motivo al mondo per cui Ben potesse provare un minimo di attrazione per lei. Però, perché a volte si comporta in modo così strano? Finita la pausa caffè tornò al lavoro domandandosi perché il suo cuore do­vesse battere in maniera così assurda.

    Mezz'ora dopo arrivò una signora agitatissima con in braccio un bambino così palesemente debole che chiamò aiuto prima ancora di prenderlo in braccio. Era piuttosto grosso e paffuto, ma mentre lo spogliava e cominciava ad annotare i parametri vitali, il piccolo faceva fatica persino a tenere gli occhi aperti.

    «Ha incominciato a vomitare» le spiegò la madre trattenendo a malapena le lacrime, «e il pediatra mi ha consigliato di farlo bere molto...»

    Celeste schiacciò di nuovo il pulsante delle e­mer­genze. Il polso del piccolo stava accelerando e la fron­te gli scottava per la febbre: gli mise una mascherina per l'ossigeno, avvicinò il carrello con l'attrezzatura per l'endovena e rischiacciò il campanello. Aprì il cu­bicolo e urlò: «Possibile che nessuno mi risponda? Ho bisogno di aiuto con urgenza!». Vide Ben che nel frat­tempo stava illustrando a un paziente la lastra della sua caviglia.

    «Schiaccia tre volte il campanello e fatti aiutare!» gridò lui come vide il piccolo.

    Celeste ricordò che solo il giorno precedente era stata sgridata per aver avuto una reazione eccessiva e adesso si verificava la situazione opposta. Il suo era davvero un lavoro strano!

    Ben fu da lei in un attimo ed esaminò rapidamente il bimbo. «Ha la fontanella depressa!» osservò mentre Celeste gli inseriva una flebo. Era terrorizzata di dover agire su un bambino così piccolo e malato, ma questo faceva parte del suo lavoro ed era stata addestrata per farlo. All'inizio aveva fatto pratica imparando a in­se­ri­re aghi nelle braccia di robusti omaccioni, le cui ve­ne sembravano cavi elettrici, e poi era passata a dei ma­la­ti normali, ma in ogni caso sempre adulti. Aveva pro­vato anche su un paio di bambini e perfino su un ne­o­nato anche se non stava male come il piccolino che a­veva davanti. La madre la guardava ansiosa e an­che Meg la stava osservando. «La pelle è poco tur­gi­da» osservò Ben continuando a esaminarlo. Si accorse che le mani di Celeste tremavano leggermente mentre cer­cava di infilargli l'ago nel braccino. «Ci penso io» le disse. Già in un bambino sano era difficile trovare la vena, ma in uno disidratato come quello era pra­ti­ca­mente impossibile. Anche Ben, pur con la sua e­spe­rienza, faticò non poco fino a che non trovò una vena nel piedino. «Sono dentro!» esclamò prelevando su­bi­to un campione di sangue. Celeste fissò la farfallina con dei cerotti e mentre i fluidi iniziavano a fluire Ben le consigliò di mettersi una mascherina. Lui non la in­dossava e nemmeno Meg. Un po' seccata fece come le era stato detto e rifletté che da quando lavoravano in­sieme, Ben stava diventando sempre più apprensivo. C'erano già le sue colleghe che si preoccupavano per lei e la cosa la imbarazzava non poco, ma Ben sem­brava avesse intrapreso addirittura una missione: la fa­ceva venire a contatto solo con i casi meno pericolosi e se non le diceva di indossare la mascherina le rac­co­mandava di disinfettarsi le mani... come se lei non ci pensasse già da sola!

    Ora però lasciò perdere ogni recriminazione perché Ben stava parlando con la madre del bimbo.

    «Ha solo nove mesi» stava dicendo la donna, «an­che se mi rendo conto che sembra più grande.»

    «Da quanto è in queste condizioni?»

    «Ha incominciato a vomitare ieri e oggi ha già vo­mitato tre o quattro volte.»

    «Di che colore era il vomito?» le chiese mentre gli esaminava l'addome, ordinando nel frattempo di au­mentare le dosi di fluidi. Celeste gli aveva già messo l'ossigeno e il pediatra stava arrivando.

    «Verde.»

    «Bene.» Poi tolse il pannolino al piccolo e chiese a Meg di chiamare immediatamente i chirurghi, mentre lui stesso si metteva in contatto con i colleghi di Ra­diologia. «Temo che qui abbiamo un caso di oc­clu­sio­ne intestinale» continuò restando in linea con il re­par­to mentre Celeste si lavava ostentatamente le mani al piccolo lavandino della stanza. Mentre se le stava a­sciugando, Ben le tese un flacone di alcool per di­sin­fettarle.

    «La tua diagnosi prevede che io non possa fare a meno di tenere la mascherina perché si tratta di qual­cosa trasmissibile per via aerea?» chiese con tono un po' sarcastico.

    «Devi solo stare molto attenta. Un bimbo di que­st'e­tà può avere qualsiasi malattia, dal morbillo alla va­ri­cella, oppure la quinta malattia... tieni» disse por­gen­dole nuovamente il flacone di disinfettante.

    Celeste s'inerpicò su uno sgabello ignorando o­sten­tatamente il flacone.

    «Dovresti usarlo» insistette Ben.

    «Ma perché mai?»

    «Perché non sappiamo ancora che malattia abbia quel bambino.»

    «Ben» Celeste chiuse a scatto la penna e la posò sulla scrivania. «Non ho bisogno che tu vigili su di me come una chioccia, davvero.»

    «Sto solamente...»

    «Facendomi diventare paranoica! Ben, ti prego, non ossessionarmi, sono solo incinta!»

    «Sto solo cercando di evitare che tu corra rischi i­nutili.»

    «Ho parlato con il mio ginecologo, con il virologo e con Meg e uso tutte le precauzioni possibili, ma ve­nire a contatto con i malati fa parte della mia pro­fes­sione.»

    «Non riesco a capire perché qualche precauzione in più debba darti tanto fastidio» borbottò lui.

    «Non posso vivere in una boccia di vetro» replicò Celeste, «e anche le mie colleghe che lavorano nei re­parti di malattie infettive o di radiologia... Pensa che alcune potrebbero addirittura essere incinte senza nemmeno saperlo e non sono forse più a rischio di me? Comunque grazie per avermi fornito questo ag­geggio» aggiunse spingendo verso di lui il flacone di disinfettante, «non pensi che potrei anche essere al­ler­gica?»

    «Fantastico!» brontolò lui, rivolto più a se stesso che a lei. In fondo, se il suo ginecologo le permetteva di lavorare, come pure l'ospedale di cui era di­pen­den­te, perché mai avrebbe dovuto preoccuparsene lui?

    Questo pensiero continuò a perseguitarlo anche do­po, mentre era al supermercato per cercare delle bi­stecche biologiche da offrirle, anche se era chiaro che non era un problema suo. Sapeva che le sue reazioni erano eccessive, e sapeva anche perché. Tra un paio di giorni sarebbe stato il quarto anniversario della morte di Jen e quindi non c'era da stupirsi che lui fosse an­go­sciato e cercasse di scacciare il ricordo occupandosi di altre cose.

 

    Al di fuori del lavoro, tra Ben e Celeste si era in­sta­urata una specie di routine per cui ogni tanto lui si presentava alla sua porta e le chiedeva se aveva voglia di cenare con lui o se aveva bisogno che le bagnasse i fiori.

    In fondo Ben aveva trovato un'amica e anche lei non sembrava affatto dispiaciuta, anzi era solo felice di non dover sembrare sempre così effervescente e si­cura di sé come quando era al lavoro.

    Era così bello guardare un film insieme ap­pog­gian­do i piedi sul suo tavolino e fino a quel momento non aveva mai discusso la sua decisione di continuare a la­vorare. Il tutto fino a quel giorno, alla trentatreesima settimana, quando improvvisamente lei alle otto e mezza di sera dichiarò di essere stanca.

    «Domani non sei di turno presto» obiettò lui, «anzi sei di riposo, sei sicura di stare bene?»

    «Domani ho l'appuntamento col ginecologo.»

    «Allora cerca di truccarti con cura per nascondere i segni della stanchezza e fargli credere di aver riposato bene.»

    «Devo assolutamente lavorare ancora per qualche settimana» mormorò Celeste pensierosa.

    Ben cercò di restare impassibile e di convincersi che non era affar suo. Però, quando lui aprì la porta per uscire Celeste scoppiò in lacrime. Celeste, quella che sorrideva sempre, alla fine dovette arrendersi. «Non ce la faccio più!» singhiozzò.

    Ben non resistette e la prese tra le braccia.

    «Allora lascia perdere!»

    «È solo che non ce la faccio più ad andare avanti così.»

    «Allora non farlo» mormorò lui in tono gentile.

    «Sono così stanca...»

    «Lo immagino.»

    «E sono anche terrorizzata dalle infezioni!»

    «Andiamo!» La sollevò tra le braccia e la fece co­ri­care sul divano.

    «Faccio fatica a pagare le bollette e la mia au­to­mo­bile è un disastro...» confessò lei tra i singhiozzi, «ma il problema è che quando nascerà il bimbo avrò molte più necessità di adesso e non so proprio come farò a cavarmela... Ho messo da parte tutto quello che ho po­tuto, ma non basterà certo per l'affitto e per le spese per il piccolo.» Ben la prese tra le braccia e la lasciò piangere con un forte senso di sollievo: in fondo il fat­to che lei ammettesse che da sola non ce l'avrebbe fat­ta era una consolazione. Le prese un bicchiere di ac­qua fresca dal frigo e iniziò a parlarle come se fosse una delle sue pazienti. Lei aveva sistemato tutto, a­ve­va anche qualche risparmio da parte ma la macchina era un disastro, in più non poteva permettersi un seg­giolino per il piccolo... le sarebbe costato un mese di stipendio.

    «E dire che mia sorella ne ha gettati via decine per­ché, se­con­do lei, nessuno andava bene... Il garage della casa dei miei ne è pieno. Figurati, con due ge­melli...» Era come scalare la punta di un iceberg, ad o­gni passo c'era una difficoltà diversa. «Ma almeno tu ti rendi conto che io devo assolutamente lavorare?» e­sclamò con rabbia, «altrimenti non ce la faccio a tirare avanti.»

    Ben la guardò comprensivo. «Comunque fino a qui ce l'hai fatta.»

    «Certe ce la fanno fino alla fine» si lamentò Ce­le­ste.

    «E altre invece no, e mi sembra che tu faccia parte di quest'ultimo gruppo.»

    «Domani andrò di nuovo dal medico e sarò molto sincera» disse lei soffiandosi il naso.

    «Bene» commentò Ben, «hai pensato di chiedere aiuto al padre?»

    «Mai.» Celeste scosse la testa. «E ti prego di non incominciare a farmi la predica sostenendo che la re­sponsabilità è anche sua, e che io ho tutti i diritti per...»

    «Nessuna predica. E i tuoi?»

    «Ho scritto loro una lettera.»

    Ben intuiva quanto le fosse costato, perché durante le loro chiacchierate era emerso come la sua famiglia fosse stata inflessibile. Se aveva deciso di scrivere era solo per il bambino. «Hai fatto bene.»

    «L'ho spedita solo ieri sera e ho chiesto loro se pos­so tornare a casa solo per poche settimane.»

    A Ben non era venuto in mente, ma a Celeste man­cava una famiglia, la sua famiglia: qualcuno che si prendesse cura di lei in quei giorni difficili e lui non poteva certo sostituirla.

    «Domani andrò dal medico e poi riferirò a Meg» continuò con voce più ferma.

    «Perfetto.»

    «E ora» annunciò alzandosi dal divano, «me ne va­do a dormire.»

    Era così stanca, affaticata e persa che Ben la strinse tra le braccia. Questa volta non per consolarla, ma per­ché e­ra quello che desiderava.

    E anche per Celeste quel contatto fu meraviglioso; un breve momento in cui appoggiarsi a qualcuno, sen­tire il suo respiro sui capelli mentre Ben la tran­qui­l­liz­zava e le diceva che sarebbe andato tutto bene.

    «Sono spaventata» ammise per la prima volta da quando aveva deciso di sfidare il mondo, di non a­bor­tire, di non rivelare a nessuno il nome del padre, e di continuare caparbiamente a lavorare. Ma forse era più facile continuare la solita vita piuttosto che fermarsi a pensare. Ora, al sicuro tra le braccia di Ben, ammise finalmente tutta la sua disperazione, e aspettò che que­sta la invadesse. Rimase così, aggrappata a lui, a ri­prendere fiato, a convincersi che forse ce l'avrebbe fatta.

    «Perché sei così spaventata?» le domandò lui dopo un lungo silenzio.

    «Perché penso che questo bimbo si meriterebbe di più.»

    Ben chiuse gli occhi: era la stessa cosa che avevano pensato lui e Jen quando avevano deciso di avere un bambino. La loro creatura sarebbe nata in una famiglia sufficientemente benestante ed era stata pianificata, a­mata e voluta. Eppure, pur con tutte quelle splendide premesse, ora lui era lì, da solo e stringeva tra le brac­cia una donna che non era Jennifer. «Però lui ha te» mormorò, pensando a quanto, nonostante tutto, fosse fortunato quel bimbo ad avere Celeste come madre. La ragazza che era riuscita finalmente a farlo ridere con il suo calore e la sua energia.

    «Secondo te io gli basterò?» chiese con un po' d'an­sia.

    «Sì, senza dubbio.» Lei sarebbe stata una madre meravigliosa. Per la prima volta dimenticò che era in­cinta e strinse tra le braccia quella ragazza im­pre­ve­di­bile, divertente, gentile e terribilmente sexy. Il suo profumo lo avvolgeva e la dolce sensazione di sentire la sua testa premere contro il suo torace lo sopraffece. Nel modo più naturale possibile, abbassò la testa sulle sue labbra carnose e la baciò, provando il turbamento di sciogliersi in lei.

    Anche Celeste era sbalordita: non solo provava e­mozioni fino a quel momento sconosciute, ma aveva anche la meravigliosa certezza di essere finalmente al sicuro. Ben le accarezzava i capelli e lei, per la prima volta, si sentiva desiderabile, amata e persino sexy. Non era un bacio da manuale ma piuttosto un co­no­scersi, un assaggiarsi, un partecipare in qualche modo alla vita dell'altro, e la solitudine di Ben si era tra­sfor­mata nella necessità di esplorarla perché Celeste era riuscita a penetrare la corazza in cui si era rinchiuso.

    «Celeste» mormorò come per convincersi che era lei la donna che stava baciando. Con una mano le ac­carezzava il viso e con l'altra le sfiorava il pancione ed era una sensazione favolosa.

    Celeste non si era mai accorta di essere una ragazza sexy e lo stava scoprendo in quel momento, mentre lui la stringeva forte a sé.

    Ben per un attimo tornò a essere l'uomo di una vol­ta, così continuò a baciarla, desiderandola sempre di più, e godeva del suo corpo morbido e della dolcezza della sua pelle. La penetrò con tenerezza, ma appena sentì il peso del bimbo si ritrasse. «Scusami» mor­mo­rò imbarazzato, «non sarebbe mai dovuto capitare.»

    Forse, però era successo. Non era stato il bacio a preoccuparla, ma era spaventata dalla sua reazione.

    «Dimentichiamolo» provò a dire lei col cuore che le batteva all'impazzata.

    «Celeste, mi ero completamente dimenticato che sei incinta, perdonami.»

    «Non c'è niente da perdonare, si è trattato solo di un bacio e poco più. Una cosa che non doveva capitare, ma che non cambierà nulla fra noi.»

Ogni mercoledì un nuovo capitolo!
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