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Vicini di casa, vicini di cuore

di CAROL MARINELLI

Celeste: Il mio nuovo vicino di casa è davvero affascinante e oltretutto lavoriamo nello stesso posto. Ma adesso ho altro a cui pensare, devo assolutamente concentrarmi sulla mia vita. Forse Ben può rivelarsi un piacevole diversivo.
Ben: Un altro anno, un nuovo inizio, quello che mi ci vuole per dimenticare. Allora perché mi sento così nervoso? Forse sono solo agitato per il mio primo giorno di lavoro. E poi, ci mancava pure la strana attrazione che provo per Celeste. Possibile che uno come me abbia voglia di una relazione stabile?

3

Ben non aveva paura del futuro.

    Spesso era preoccupato per i suoi pazienti, ma per quanto riguardava se stesso non aveva paura. La cosa peggiore che potesse capitargli era già successa anni prima, per cui adesso, e da parecchio tempo, non te­meva più nulla.

    Però sentiva una specie di tarlo che lo rodeva in continuazione, anche se cercava di ignorarlo.

    Quando arrivò in ospedale per il suo secondo gior­no di lavoro, trovò le porte scorrevoli del Pronto Soc­corso spalancate. All'interno c'erano un uomo che era semiannegato e le vittime del solito tamponamento a catena sulla strada costiera. La temperatura di Mel­bo­urne in quei giorni si aggirava intorno ai quaranta gra­di e di conseguenza si verificavano molti casi di col­lasso. Erano giorni davvero difficili e tutti, anche Ce­leste, la­vo­ra­vano ben oltre i loro limiti.

    Notò che aveva le caviglie gonfie, il respiro un po' affannato e il viso arrossato. Si muoveva a fatica men­tre preparava il carrello dei medicinali e all'una e mez­za vide il sollievo con cui accolse la fine del turno.

    Mentre la osservava allontanarsi camminando len­tamente, Ben si preoccupò.

    «Che cosa fai questa sera?» gli chiese Belinda che stava scrivendo al computer. La collega era vicina alla quarantina ma era ancora incredibilmente bella e so­prattutto arguta e spiritosa. Aveva una massa di ca­pel­li scuri, dei meravigliosi occhi nocciola a forma di mandorla, e delle labbra rosse e piene. Di solito era vestita come se uscisse da una rivista di moda. A Ben però non interessava, per cui per lui non era un pro­ble­ma condividere con lei un ufficio minuscolo. Anche se lavorava in quell'ospedale da solo due giorni, il la­voro burocratico si stava già accumulando.

    «Passerò dall'agente immobiliare, come sempre, e andrò a comprarmi un po' d'insalata di pollo; magari dopo cena andrò a fare una corsetta. E tu?»

    «Ora ti faccio vedere, vieni qui.»

    Gli mostrò una fotografia che ritraeva un uomo dal­l'aspetto piuttosto banale. «È un medico generico circa mio coetaneo» gli spiegò, «ha dei bambini ma non vuole ancora coinvolgerli... cosa che non mi spiace per nulla! L'ultimo con cui sono uscita si è portato die­tro il figlio al nostro secondo appuntamento. Con que­sto qui ho parlato solo al telefono» continuò mentre Ben era sempre più stupefatto, «e questa sera andremo a bere un caffè insieme, giusto per conoscerci.»

    «Intendi dire che avete un appuntamento galante?» chiese incredulo.

    «È solo un caffè» affermò Belinda, «ma non si può mai sapere.»

    Ben scosse la testa. «Questi incontri con persone conosciute su internet non fanno per me.»

    «Provaci, cos'hai da perdere?»

    «Sta' attenta tu, piuttosto, potrebbe essere chiu­n­que. Non c'è nessuno che ti possa accompagnare?»

    «Ho controllato, è esattamente quello che dice di essere.»

    «Bene, allora buona fortuna!»

 

    L'agente immobiliare, dopo l'iniziale freddezza o­stentata per la mancata vendita dell'appartamento, era tornato l'amicone di sempre, anche perché aveva fiu­ta­to un potenziale acquirente per la grande casa mal­ri­dotta.

    «Non posso darci un'occhiata?» gli aveva chiesto Ben.

    «No, non fino al weekend stabilito per le visite. Do­po potrò fare in modo che lei la riveda da solo.»

    «In realtà questo weekend lavoro, e se questo si­gni­fica che non potrò visitarla... pazienza!»

    «Ma ce la farebbe a passare almeno per una mez­z'o­ra?»

    «Come le ho detto, mi è un po' difficile» Ben si era stretto nelle spalle, «in ogni caso questa sera andrò a vedere un'altra casa.»

    A queste parole l'agente aveva afferrato il telefono e in meno di un'ora gli aveva organizzato una visita. Per questo motivo ora Ben stava visionando quella che forse sarebbe diventata la sua casa. C'erano un mucchio di lavori da fare, la cucina era un disastro e il bagno al piano terra doveva essere completamente ri­fatto. Ma la camera matrimoniale era stata rinnovata da poco e aveva delle finestre a tutta altezza che of­fri­vano una vista spettacolare sulla baia e il bagno an­nes­so ne aveva due identiche.

    Certo, per una persona sola era un po' grande, ma in quella casa si sentiva a proprio agio. Avrebbe potuto rimetterla a posto a poco a poco e lavorare nel giar­di­no. In piedi nella camera matrimoniale, per la prima volta dopo anni, si sentì pervadere da un sentimento che as­somigliava alla gioia. Anche se con l'agente immobiliare si faceva vedere poco convinto e scan­da­lizzato sia per il prezzo richiesto sia per la velocità con cui il proprietario voleva essere saldato, stava pensando alle prossime mosse da fare. Non vedeva l'ora che ar­ri­vas­se la data dell'asta.

    Quando entrò nel suo piccolo appartamento si sentì colpire da un'ondata di calore insopportabile, così spa­lancò la finestra, accese il ventilatore, mise la spesa in frigo e si spogliò sperando che una buona doccia sa­rebbe riuscita a cancellare quella giornataccia. Dopo, finalmente un po' rinfrescato, infilò solo un paio di calzoncini corti e si diresse in cucina. Dopo un attimo tutto l'immobile piombò nel buio: non era cosa insolita a Melbourne perché con quel caldo torrido tutti coloro che possedevano un condizionatore lo accendevano generando dei cali di tensione.

    Uscì in cerca del quadro elettrico e vide Celeste che faceva la stessa cosa. Indossava dei calzoncini lilla e un top nero. Aveva i capelli bagnati e un'aria de­ci­sa­mente seccata.

    «Ancora!» sbuffò salutandolo brevemente mentre si dirigeva in quello che di lì a poco sarebbe diventato un forno. A differenza del suo, l'appartamento di lei godeva anche di tutto il sole al tramonto ed era una vera fornace.

    E per la prima volta dopo anni provò pre­oc­cu­pa­zio­ne per un'altra persona. Così aprì il frigorifero buio ed estrasse i pacchetti del rosticciere. Ben non amava i vicini invadenti, ma questa volta si trovò sulla porta di Celeste. Lei gli venne ad aprire con in mano una sco­della di cereali, visibilmente seccata dall'intrusione.

    «L'elettricità tornerà in un paio d'ore, succede spes­so» gli spiegò e si voltò per chiudere la porta. Non vo­leva essere villana con lui in particolare, voleva solo cercare di non notare che era a torso nudo, il che con quell'ondata di caldo era più che normale. Però la vi­sione di quel fisico possente l'aveva fatta arrossire e non voleva che lui se ne accorgesse.

    «Hai già cenato?» le chiese Ben.

    Celeste guardò la ciotola di cereali con aria col­pe­vole; non era certo il cibo più adatto per una donna in uno stato avanzato di gravidanza. «Non posso cu­ci­na­re senza elettricità» ribatté sulle difensive.

    «Non preoccuparti, io ho comperato fin troppo cibo per una persona sola. Vieni, andiamo a mangiare sulla spiaggia dove fa più fresco.»

    E infatti era così. La brezza era piacevole, Celeste camminava sulla riva e Ben sentiva lo sciacquio delle onde sulle sue caviglie gonfie. «Avrei dovuto venirci prima» sospirò lei, «quando sono qui mi sento così be­ne.»

    «Anch'io» convenne Ben. Era bello stare lì a far niente, semplicemente a sentir trascorrere il tempo. Mangiarono pollo in gelatina con maionese e una fre­sca insalata greca e per finire un po' di frutta. Era da un pezzo che Celeste non faceva una cena così sana. Anche il bimbo sembrò apprezzarla perché le assestò un bel calcetto.

    «Era tutto buonissimo, grazie!»

    «Scusami se prima sono stato invadente.»

    «No, affatto.»

    «E invece sì. Voglio tenere separata la professione dalla vita privata.»

    «Giusto, facciamo finta che questa serata non sia mai esistita» lo rassicurò lei. «A proposito, come ti trovi?»

    «Benone.»

    «Meg mi ha detto che prima eri a Sydney.»

    «Infatti. E tu da quanto lavori qui?»

    «Circa da tre mesi» rispose lei dopo un attimo di si­lenzio, «ma non credo che siano stati molto felici di sapere che ero in stato interessante quando mi hanno assunta.»

    Ben era troppo educato per andare a fondo della questione, anzi le sorrise e lei si sentì finalmente ri­las­sata.

    «Che meraviglia!» esclamò dopo un lungo silenzio.

    Anche lei era meravigliosa: le lunghe ciglia scure le sfioravano le guance, e il suo ventre prominente era proprio come quello di Jennifer... Scacciò il pensiero.

    «E mister Mitchell esiste?»

    «No.»

    «Ma lo sa? Intendo dire, ti aiuta in qualche modo?»

    «Ha pensato di farlo dandomi i soldi per abortire.»

    «Ah.» Ben si sollevò su un gomito e la fissò non o­sando chiedere altro.

    «Quando mi sono accorta di essere incinta lavoravo in Maternità. Figurati, neonati da tutte le parti; al­l'i­ni­zio ero terrorizzata, poi me ne sono fatta una ragione.»

    «Non sentirti obbligata a dire una parola di più se non vuoi» la interruppe lui.

    Ma Celeste sentiva il bisogno di raccontare, di par­lare finalmente con qualcuno e così, sdraiata sulla sab­bia e con gli occhi chiusi, cercò di chiarirsi le idee perché e­ra evidente che lo yoga non aveva funzionato. «Lui è sposato, e ovviamente io non sapevo che lo fosse, ma questo non cambia le cose.»

    «Siete stati insieme a lungo?»

    «Tre mesi» Celeste tirò su col naso. «Era il mio pri­mo grande amore e avevo fiducia in lui. Sapevo però che non potevamo vederci molto e che non potevo an­dare a casa sua.»

    «Scusa?»

    «Non importa» borbottò lei.

    «E allora dove andavate?»

    «Fuori a cena, a fare delle gite, qualche volta in al­bergo.» Lo guardò negli occhi chiari. «Lui è un po' più vecchio di me» confessò e poi tacque di nuovo.

    Giusto o sbagliato che fosse, era chiaro che Ben la stava giudicando e si domandava come si potesse es­sere stati così incoscienti. E ora c'era questo bam­bi­no...

    Ben chiuse gli occhi e ripensò a Jennifer, a tutti i loro progetti, a quanto avevano desiderato quel bimbo, anzi quella bimba, e anche se non fece nessun com­mento Celeste percepiva la sua disapprovazione.

    «Tu non hai mai fatto sbagli?» gli chiese sulla di­fensiva.

    «Ne ho fatti un mucchio» ammise lui.

    «Ma non hai storie d'amore da rimpiangere.»

    «Ho tantissimi rimpianti.»

    «Sei single, divorziato?» Sembrava quasi l'elenco delle schede dei papabili che consultava Belinda.

    «Sono vedovo» rispose lui semplicemente.

    «Ti manca molto?» gli domandò con dolcezza.

    «Sì» rispose lui facendo scorrere nella mano stretta a pugno i granelli di sabbia. «A quest'ora sarà tornata la corrente.»

    «E allora?» Celeste sorrise nel buio, «è così bello stare qui, mi stavi dicendo quanto ti manca.»

    Perché è così insistente? Ben avrebbe solo voluto alzarsi e porre fine a quella conversazione che stava diventando troppo intima per i suoi gusti. Prese un al­tro pugno di sabbia e lo fece scorrere tra le dita. «Tu non ci crederai, ma tutto questo mi manca anche per Jennifer... era così innamorata della vita.» Guardò la superficie piatta dell'oceano e per un attimo gli sem­brò di vederla correre sulla spiaggia, con la sua coda di cavallo al vento e il sorriso felice. «Sicuramente ora starebbe facendo jogging o magari nuotando.»

    «Era in forma?»

    «Molto, ma alla fine tutto ciò non è servito a nulla.»

    «Cosa faceva?»

    «Era medico come me in un Pronto Soccorso.»

    «Cosa le è successo?» sussurrò Celeste.

    Ben non voleva continuare, una ragazza nelle sue condizioni non avrebbe dovuto sentire quello che le a­vrebbe raccontato. «Andiamo» mormorò, le prese una mano e l'aiutò ad alzarsi, e poi, lentamente, fecero ri­torno a casa chiacchierando.

    «Hai più avuto relazioni da allora?»

    «È morta solo tre anni fa, quasi quattro ormai. Sì, sono uscito con qualcuna, ma probabilmente è ancora troppo presto.»

    «Immagino che tu faccia continuamente confronti» insistette Celeste avventurandosi in domande che nes­suno aveva mai avuto il coraggio di porgli. Ben trovò un diversivo cercando di aprire il portoncino, ma lei insistette. «Allora lo fai ancora?»

    «Cosa?»

    «Paragonare ogni donna che incontri a lei?»

    Era una ragazza determinata e cocciuta, pensò Ben, sembrava un picchio; di quelli che battono e ribattono sempre sullo stesso tronco.

    «Una volta sì, ma ora non più anche perché non c'è nessuna che m'interessi in modo particolare.»

    «Specie perché lei sembra una specie di wonderwoman!» La battuta di Celeste era così an­ti­con­ven­zio­nale che Ben non poté fare a meno di sorridere. «Al­lo­ra» insistette lei, «sei pronto?»

    «Forse, ma per niente di troppo serio.» Questa ra­gazza è decisamente invadente!, pensò lui.

    «Sono più che certa che avrai un sacco di pre­ten­denti!» rise Celeste che aveva ascoltato i commenti nei reparti e nelle stanze dello staff.

    «Raccontami di te, piuttosto.» Erano seduti sul gra­dino della casa di lei e Celeste non osava chiedergli di entrare: la loro amicizia, o meglio conoscenza, era troppo recente per azzardare un passo del genere.

    «Non credo proprio di essere nello spirito di ri­ce­ve­re un invito galante. Mi ci vedi ad andare per locali?»

    «Direi proprio di no.»

    «E poi sono ancora nella fase in cui odio gli uo­mi­ni: sono tutti spregevoli!»

    «Forse sono anch'io in quella fase e forse qualche volta sono stato un po' spregevole.»

    «Raccontami!» chiese lei facendolo scoppiare a ri­dere. Quella ragazza era così schietta che gli faceva tenerezza.

    «Per un po' sono uscito con una ragazza e, anche se sapeva tutto fin dall'inizio e mi assecondava, dopo un po' ha incominciato a fare allusioni e a desiderare un rapporto più coinvolgente.»

    «Però non era quello che volevi, vero?»

    «Magari un giorno, chissà. Poi ha incominciato a parlare di figli e se c'è una cosa di cui sono as­so­lu­ta­mente certo è che non voglio avere bambini.»

    «Mai?»

    «Mai.»

    Celeste recepì il messaggio e si rilassò. Per carità, si conoscevano da poco e avevano appena iniziato a scalfire la superficie. Però tra loro c'era una sorta di affinità che lei non aveva mai più provato da quando Dean l'a­ve­va trattata in quel modo.

    Stare con Ben, sentire le sue parole pacate e vedere i suoi occhi chiari in qualche modo la rilassava e si re­se conto che anche lei sortiva lo stesso effetto su di lui. Valutò quali sarebbero potute essere le con­se­guen­ze di una relazione tra di loro.

    «Direi che non potremmo essere assortiti meglio. Tu non vuoi una relazione e dal canto mio» aggiunse lei dandosi una pacca sulla pancia, «questa non è certo un'ernia.»

    «Questo l'avevo capito. Che ne dici se fossimo sem­plicemente amici?»

    Lei fissò quegli occhi trasparenti, questa volta sen­za arrossire. Se non fosse stata così scottata dalla vita si sarebbe presa una cotta formidabile per lui, ma in questo momento era già molto avere un adulto con cui parlare. Con la sua famiglia non aveva più contatti, e i rapporti con i colleghi dell'ospedale erano poco più che semplici conoscenze. «È bello avere un amico» dichiarò con convinzione. Poi andò a prendere due bicchieri d'acqua, raccolse delle margherite e le mise a bagno. Questo semplice gesto mise Ben a suo agio.

    «Sai, con Jen tutto ciò sarebbe stato normale» iniziò passandosi una mano tra i capelli e cercando di tra­sformare in parole i suoi sentimenti. Era così facile parlare con lei! Forse perché lei non aveva mai co­no­sciuto Jen, o forse perché i suoi occhi non si riem­pi­va­no di lacrime come quando ne parlava con parenti e a­mici che gli mandavano vaghi segnali di rimprovero come se la colpa di tutto quello che era successo fosse stata in parte sua. «Non voglio che possa accadere un'altra volta, con nessun'altra.»

    «Fortunato tu allora.»

    Ben rimase sconcertato dalla sua risposta; in realtà si sentiva tutt'altro che fortunato, ma forse Celeste aveva ragione: era stato fortunato ad avere Jen nella sua vita, anche se per troppo poco.

    «Tu non sai cosa darei per poter dire a questa cre­a­tura che ho in grembo che io e suo padre ci siamo a­mati.»

    «Vi siete amati?»

    «Io ne ero convinta, ma forse si trattava solo di un'infatuazione. Credo che tu invece abbia vissuto una vera storia d'amore.»

    Ben non rispose e dopo un attimo tornò la corrente, la televisione riprese a funzionare e un grido di gioia arrivò da un gruppo di ragazzi che evidentemente a­bi­tavano nel vicinato. «Ho un po' di lavoro arretrato» mormorò lui.

    «Grazie mille per la cena» sorrise Celeste, «anche da parte del mio piccolino.»

    «Ma figurati...»

    «Ricambierei volentieri, ma sai, in questo periodo sono un po' a corto...»

    «Non ti devi assolutamente preoccupare.»

    Era evidente che lui aveva capito la sua situazione.

    Però, quando tornò a casa il giorno dopo, trovò un vaso di girasoli davanti alla porta. Era il suo modo di ringraziarlo.

    Bussò alla porta di Celeste, «Ho delle buone notizie per te!»

    «Entra, dai!»

    «Questa sera hanno tolto il respiratore artificiale a Matthew» le spiegò entrando nella minuscola cucina, «sta molto meglio e probabilmente lo trasferiranno in Terapia Intensiva già domani mattina.»

    Era davvero un'ottima notizia!

    «Pensa che Belinda è venuta a congratularsi con me per l'ottimo lavoro e io le ho detto che gran parte del merito spettava a te.» Notò che era arrossita per il complimento e continuò. «A volte bisogna solo essere capaci di decidere se chiedere aiuto o no. Sono attimi che fanno davvero la differenza.»

    «Hai perfettamente ragione» osservò Celeste men­tre riempiva di tè freddo due bicchieroni, «sai, spesso si ha paura che gli altri pensino che sei troppo ap­pren­siva.»

    «Troppo apprensivi!» mormorò Ben con amarezza, «a volte dipende tutto da un'impressione.»

    «Che cosa intendi dire?»

    «È come quando hai il presentimento che possa ac­cadere qualcosa ma non ne sei sicuro.»

     Celeste aveva capito benissimo quello che Ben in­tendeva dire e anche se era molto attratta da lui, aveva fermamente deciso che non si sarebbe mai più in­na­morata di qualcuno che aveva a che fare con il suo la­voro. Era sufficiente sapere di avere un amico.

    Sedettero nel piccolo soggiorno guardando uno stu­pido show alla televisione. Lo spettacolo parlava di bambini piccoli e Celeste si era immedesimata al mas­simo, mentre Ben era sempre più a disagio vedendo i minuscoli indumenti impilati sull'asse da stiro. Gli sembrava quasi di sentirne il tenero profumo, ma forse era solo il profumo della crema che Celeste si spal­ma­va sulle mani.

     Andò a prendere del tè freddo e ne versò un po' nel bicchiere che lei teneva in mano. Non sarebbe sta­to un uomo normale se non avesse notato il solco tra i suoi seni, e in effetti bisognava essere ciechi per non ve­derli. Avrebbe voluto sprofondarvi la testa dentro e giacere lì all'infinito.

    Invece sedette, ma si accorse subito che non sop­portava più quell'odore di bebè, né il profumo di Ce­le­ste. La piccola stanza era torrida e lei, con un gesto naturale, si stiracchiò sul divano e raccolse i capelli in alto per rinfrescarsi.

    «È meglio che vada...» mormorò lui.

    «Di già?» chiese Celeste. Andarono avanti a chiac­chierare e in un attimo si fecero le dieci. Quando andò via, Celeste pensò che era stata la miglior serata che a­vesse trascorso da tanto, troppo tempo. Una serata un po' troppo piacevole, per la verità. Anche perché, tra i mille pensieri che le si accavallavano nella mente, provò a immaginare come sarebbe stato essere baciata da lui, che cosa avrebbe fatto se le loro labbra si fos­se­ro avvicinate.

    «Grazie per i fiori, non dovevi disturbarti.»

    «Ma figurati!»

    «Davvero non avresti dovuto farlo, con me po­treb­bero morire in capo a due giorni, perché mi di­men­ticherei di bagnarli.»

    «Non preoccuparti, io non me ne scorderò» sorrise Celeste chiudendosi la porta alle spalle con un in­spie­gabile senso di sollievo.

Ogni mercoledì un nuovo capitolo!
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