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Vicini di casa, vicini di cuore

di CAROL MARINELLI

Celeste: Il mio nuovo vicino di casa è davvero affascinante e oltretutto lavoriamo nello stesso posto. Ma adesso ho altro a cui pensare, devo assolutamente concentrarmi sulla mia vita. Forse Ben può rivelarsi un piacevole diversivo.
Ben: Un altro anno, un nuovo inizio, quello che mi ci vuole per dimenticare. Allora perché mi sento così nervoso? Forse sono solo agitato per il mio primo giorno di lavoro. E poi, ci mancava pure la strana attrazione che provo per Celeste. Possibile che uno come me abbia voglia di una relazione stabile?

5

Invece aveva cambiato tutto.

    La vide durante l'intervallo per il pranzo che stava parlando con Meg e le lanciò uno sguardo complice. Ben continuava a ripetersi che era stato un semplice bacio tra amici e che per un breve momento avevano perso il controllo della situazione.

    «Come stai?» le chiese alla prima occasione.

    «Non male. Ti comunico che da adesso sono uf­fi­cialmente in maternità.»

    «Come stai Celeste?» le domandò Belinda che era sopraggiunta nel frattempo.

    «Stavo giusto raccontando a Ben che sono stata uf­ficialmente dichiarata inabile al lavoro.» Lui vedeva quanto faticasse a mantenere un'espressione ferma. «Quindi credo che ci vedremo quando avrò partorito.» Quello era un messaggio per tutti e due, Ben lo aveva inteso chiaramente e si era sentito in colpa. Con­ti­nua­va a chiedersi come avesse fatto a perdere il controllo la sera prima. Celeste aveva già abbastanza problemi senza che ci si mettesse anche lui, e una ragazza con un bambino era l'ultima cosa al mondo di cui aveva bisogno.

    «Spero che stia bene» commentò Belinda quando Celeste si allontanò con la sua andatura dondolante.

    «Se si riposa lo starà certamente» rispose Ben.

    «Non è questo che intendo dire. Quello che mi pre­occupa è come farà quando nascerà il bambino.»

    «Non è una ragazzina, se la caverà» ribatté lui un po' seccato dal pessimismo di Belinda.

    «In ogni caso non sarà facile» continuò la donna, «intanto chissà chi è il padre, lei non ne ha mai parlato ma lui dovrebbe essere responsabile per tutto questo.»

    «Com'è andata con il tuo medico?» chiese Ben per cambiare discorso.

    «Paul è fantastico! Questo weekend andremo via insieme» sorrise lei.

    «Lo so bene, dal momento che ti sostituisco io.»

    «La sua ex moglie terrà i bambini.»

    «Li hai già conosciuti?»

    «Santo cielo, no! L'ultima cosa al mondo che de­si­dero è occuparmi dei figli degli altri.»

    Anche Ben ne era convinto, ma una cosa era certa: non poteva interrompere la sua amicizia con Celeste, ormai era troppo coinvolto. Non poteva smettere di vederla almeno finché restavano vicini di casa.

    «Tieni, qui c'è qualcosa per te» disse Belinda con a­ria complice. Ben andò al computer e scoppiò a ridere: sul monitor c'erano una ventina di donne che lo fis­sa­vano sorridenti.

    «Ho inserito i tuoi dati sul web e guarda che ampia scelta hai.»

    «Non sto cercando una fidanzata» si difese lui, «e certamente non in questo modo.»

    «Siamo nel ventunesimo secolo!» rise Belinda, «non ho tempo per frequentare i locali e per fortuna Paul mi ha detto che non sta cercando un surrogato di madre per i suoi figli. Gli ho subito spiegato che la mia carriera viene prima di tutto e non ho intenzione di avere figli. Guarda, quella mi sembra carina.»

    Ben lesse la scheda della donna. «Dice che cerca qualcuno che viaggi senza bagaglio, io ho un carico da autocarro.»

    «Tutti l'abbiamo» Belinda si strinse nelle spalle, «basta solo mentire un po'. Voglio dire che se uno ar­riva alla nostra età con tutta una vita alle spalle è chia­ro che abbia del bagaglio con sé. Forza, Ben, datti una mossa!»

    «Lascia perdere, Belinda, non ho nessuna in­ten­zio­ne di iniziare una relazione.» Belinda era una cara a­mica, ma adesso incominciava a esagerare.

 

    L'indomani sarebbe stato il quarto anniversario... si sdraiò sul letto e chiuse gli occhi. Era possibile che fossero già passati quattro anni? Gli sembrava che fos­se successo solo ieri. Quattro anni? Spalancò di colpo gli occhi perché si era ricordato che doveva venire a patti con il presente, con il problema rappresentato da Celeste prima di continuare a ricordare e a rim­pian­ge­re il passato.

 

    «Mi stavo domandando...» esordì. Aveva impiegato secoli per decidere quale fosse il modo migliore per affrontare quella situazione e alla fine aveva deciso di passare da lei, di far finta che non fosse successo nien­te e poi proporle la sua soluzione. Celeste aveva im­piegato molto tempo per venire ad aprire e quando lo fece era evidente che l'aveva svegliata. Aveva l'im­pronta del cuscino impressa sul viso e la sua solita vi­vacità era un po' appannata. Inoltre gli sembrava de­ci­samente scorbutica. «Dormivi?»

    «Per la verità sì, prima dormivo.»

    «Scusa.» Ben si schiarì la voce. Non voleva piombare lì da lei con lo scopo manifesto di aiutarla. «A proposito, domani ho finalmente un pomeriggio libero e siccome non ne posso più di piatti pronti pensavo di andare a fare un po' di spesa. Ti serve qualcosa?»

    «Sono a posto, grazie.»

    «Non è un problema, davvero. Sei stata tu a dirmi che fare acquisti ti stanca.»

    «Ho fatto la spesa on-line proprio questo po­me­rig­gio e poi domani verrà una mia amica e mi ac­com­pa­gnerà a fare scorte per riempire il freezer.»

    «Perfetto, allora!»

    «Il medico ha detto che devo riposare molto» con­ti­nuò lei, «così non vorrei sembrare scortese, ma sin­ce­ramente ho fatto una fatica terribile a prendere sonno e quando tu hai bussato mi ero appena addormentata.»

    «Oddio, scusami!»

    «Non potevi certo saperlo.» Fece un piccolo sorriso che contrariamente al solito non raggiunse i suoi oc­chi. «Però in futuro è meglio che tu eviti di piombarmi in casa.»

    «Certo» mormorò lui. Del resto era esattamente quello che voleva. In questo modo si sentiva quasi as­solto, però per qualche oscuro motivo non era sod­di­sfatto. «Cosa ti ha detto il medico?» chiese, incapace di andarsene.

    «Te l'ho detto, che devo riposare molto.» Il viso so­lare di Celeste era una maschera di amarezza. «E poi, Ben, non offenderti, ma non è un problema tuo.» Con queste parole chiuse la porta.

    Lui tornò nel suo monolocale e come aveva fatto negli ultimi anni durante quella notte, cercò di non guardare l'ora. Quella cosa terribile che sono gli an­ni­versari... ci aveva riflettuto molte volte: era come se uno in quel preciso momento potesse fermare il tempo e fabbricarsi un finale diverso. Magari venendo a patti con Dio o chissà chi altro. Perché c'era un'altra cosa che quella notte lo opprimeva: il senso di colpa. Si sentiva colpevole perché non stava affogando nel whisky il suo dolore e il suo pensiero non era rivolto solo a Jen e a quello che sarebbe potuto essere.

    Questa volta invece era alla finestra e pensava a Ce­leste, non a quello che sarebbe potuto essere, ma a quello che era una realtà. Cosa ne sarebbe venuto fuo­ri?

 

    Il tempo era stato un buon medico. Glielo avevano detto, se lo era ripetuto lui stesso, ma solo ora in­co­minciava davvero a crederci. Ora il dolore lo rodeva di meno e gli lasciava spazio anche per altri pensieri. E così Ben, in un giorno che in genere trascorreva nel segno del lutto, si alzò, si fece la barba e si vestì. An­dò a trovarle al cimitero ricordando loro che le aveva sempre amate e assicurando che le avrebbe amate sempre. Però non si diresse verso la casa dei suoi ge­nitori e prese la decisione di ricominciare in qualche modo a vivere. Andò in banca, si recò al­l'ap­pun­ta­men­to con l'agente immobiliare, guardò e riguardò un'altra volta la casa dei suoi sogni e acquistò una barca la­sciando l'acconto, poi tornò a casa, vide che i girasoli stavano morendo di sete, li bagnò e andò a mettersi dei bermuda.

    Fino a quel momento era andato tutto bene, ma poi giunse la telefonata dei genitori di Jen e poi quella dei suoi genitori, seguita da quella della sorella di Jen. E a quel punto il lutto lo travolse di nuovo. Si sforzò di non guardare l'orologio, di non ricordare l'e­satto tono della voce di Jen che gli diceva di avere un po' di mal di testa. Nella sua voce non c'era nulla di strano che lo potesse mettere in allarme. Anzi, forse c'era stato, ma lui era un medico e sua moglie, anche lei medico, era incinta e ci potevano essere mille mo­ti­vi per quel ma­lessere. Ma lei lo aveva rassicurato. «È solo un mal di testa, Ben» aveva ripetuto per tran­qui­l­lizzarlo.

    Solo che quando le aveva suggerito di prendere qualcosa, invece del suo solito netto rifiuto, gli aveva detto di averlo già preso. Jen, che non prendeva mai nulla, aveva già ingerito due antidolorifici!

    «Vengo a casa?» le aveva proposto lui.

    «Per amor del cielo, Ben» aveva risposto irritata, «è solo un mal di testa, vado a sdraiarmi un po'.»

    Anche senza orologio aveva rivissuto quel po­me­riggio con precisione matematica: aveva camminato sulla spiaggia guardando i grattacieli di Melbourne stagliarsi in lontananza nelle prime luci del tramonto, e quando aveva telefonato a casa e Jen non aveva ri­sposto aveva cercato di convincersi che stava ri­po­san­do. Più tardi aveva telefonato ancora, ed erano e­sat­ta­mente le sette e cinque quando era entrato in sog­gior­no e l'aveva vista accasciata sul divano, pallida, im­mobile, morta.

 

    Le aveva auscultato il petto, aveva chiamato l'am­bulanza nel tentativo di salvare almeno il bambino, anche se in cuor suo sapeva che era troppo tardi anche per lui, anzi lei.

    Continuava a correre per la casa come se lo stesse inseguendo il diavolo, ma ormai nemmeno il diavolo gli avrebbe fatto paura tale era il rimpianto e la rabbia che provava per quell'ingiustizia tremenda che lo a­ve­va colpito.

    No, non voleva Celeste e suo figlio, lui voleva solo e sempre la sua bambina!

    Era un sollievo stare a casa a riposare, ma era anche molto noioso. Celeste si sentiva sola. Alla sua richie­sta di poter tornare a casa i suoi avevano risposto con un secco rifiuto e con un assegno che lei all'inizio a­ve­va deciso di non incassare, ma poi aveva capito che non era il caso di impuntarsi. Con quei soldi avrebbe potuto comprare qualcosa di grazioso per il piccolo e andare dal parrucchiere invece di tagliarsi i capelli con le forbici di cucina, comprare altri pannolini e pagare due mesi di affitto in anticipo. Tornò in camera e i­ni­ziò a sentire acutamente la mancanza di Ben. Gli man­cava più di quanto gli fosse mai mancato Dean, anche se questo era assurdo. Ripensò mille volte a quel bacio ricordando che aveva provato sensazioni irripetibili. Quel bacio le aveva mostrato come sarebbe potuta es­sere bella la vita.

    Cercò di ignorare il suono del campanello: magari erano i suoi che avevano cambiato idea, o il postino o chissà chi.

    Era Ben. «Spero di non averti svegliata anche que­sta volta» esordì.

    «No, vieni.»

    «Scusami se piombo qui all'improvviso...» aveva lasciato addirittura il motore dell'auto acceso.

    «Sono passato da mia sorella e mi sono fatto dare il seggiolino dell'auto.»

    «Oh!»

    «Guarda, non voglio offenderti» continuò lui un po' a disagio, «se non le vuoi devi solo dirlo. Lei ha in­si­stito per darmi alcune altre cose, dei vestitini, un let­ti­no, un passeggino e uno di quei marsupi per fare jogging.»

    «Ho mai detto che avrei fatto jogging e per di più con quell'aggeggio?»

    «No.» Nonostante la sua evidente depressione Ce­le­ste riuscì a strappargli un sorriso.

    «Secondo mia sorella va bene anche solo per pas­seggiare, il vantaggio è che così hai le mani libere»

    Celeste non scherzava più. A parte l'assegno dei suoi, Ben era la persona che aveva fatto di più per lei: l'aveva aiutata in modo concreto e affettuoso e il fatto che questo venisse da lui lo rendeva ancora più no­te­vole. «Grazie di cuore.»

    «Allora te li posso portare dentro?»

    Celeste fece cenno di sì, sforzandosi di non pian­ge­re e si offrì di aiutarlo ma Ben la cacciò via, così se­dette sul divano ringraziando il cielo perché molti suoi desideri si erano avverati. Tutto il resto erano solo so­gni e desideri irrealizzabili. Ben accettò di buon grado un bicchierone di tè freddo mentre lei, emettendo una serie di gridolini estasiati, apriva borse su borse piene di minuscole cose deliziose.

    Ben invece stava vivendo un vero incubo: tutte quelle cose erano destinate alla bambina sua e di Jen, contro la parete vedeva la culla che aveva sistemato con tanto amore quattro anni prima. Le calzine che Celeste apprezzava così tanto lo facevano sudare, e trasportare il seggiolino vuoto sul sedile posteriore della sua auto non era stata impresa facile. Tuttavia gliel'aveva promesso quella notte famosa.

    «Ti lascio, allora» borbottò. Non ce la faceva più a restare in quella casa minuscola piena di oggetti in­fan­tili. Alzandosi però, si accorse che Celeste aveva un a­spetto sofferente, così sofferente che l'avrebbe presa in braccio e portata di corsa in ospedale. Ma dove dia­vo­lo sono i suoi genitori? «Hai avuto notizie dai tuoi?» le chiese più aspramente di quanto avrebbe voluto.

    «Sì, mi hanno mandato un po' di denaro» rispose Celeste cercando ancora caparbiamente di non scop­piare a piangere.

    «Quando ti visiterà di nuovo l'ostetrico?»

    «Mercoledì prossimo.»

    Era solo venerdì. «Quando ti ha visitata l'ultima volta?»

    «Martedì e mi ha detto che se la pressione resta così alta mi dovranno ricoverare.»

    «Hai controllato di non avere proteine nelle urine?»

    «Sì, ma è tutto a posto.»

    Ben cercò di valutare le sue condizioni in modo professionale e distaccato, ma non era così facile. «Sei troppo gonfia, Celeste, hai troppa ritenzione idrica.»

    «Lo so, infatti mi hanno tolto il sale e anche lo zuc­chero e mi lasciano fare una breve passeggiata tutti i giorni. Sono ben controllata, tranquillo.»

    Ma lui non lo era affatto. «Perché non telefoni e ti fai anticipare la visita? Ti posso accompagnare io.»

    «Ben» lo interruppe lei, «grazie per tutte queste co­se meravigliose e ringrazia tanto anche tua sorella. Appena riesco le manderò un biglietto.»

    Era ferma e decisa e Ben dovette accontentarsi di quello.

Ogni mercoledì un nuovo capitolo!
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