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Il tesoro nascosto

di SOPHIA JAMES

Inghilterra, 1822 - Durante un ricevimento Asher Wellingham, nono Duca di Carisbrook, rimane folgorato dalla bellezza esotica di una sconosciuta che ha un'aria stranamente familiare. Si tratta di Emerald Sanford, figlia di un pirata dei Caraibi, giunta a Londra dalla Giamaica sotto mentite spoglie per recuperare un raffinato bastone da passeggio nel quale suo padre ha nascosto la mappa di un tesoro. Purtroppo, o forse per sua fortuna, il prezioso bastone è nelle mani di Asher, l'uomo che le ha ucciso il padre. Nessuno dei due ha previsto, però, di innamorarsi perdutamente. E adesso?

9

Il mattino seguente, a colazione, il duca e la sua giovane ospite erano tutti sorrisi e parole gentili.

   «Mi passereste la marmellata di fragole?»

   «Il cibo è di vostro gradimento?»

   Lucinda e Taris per fortuna erano presenti o la disperazione sotterranea di Emerald e Asher sarebbe stata ancora più evidente.

   «Ieri ho incontrato Malcolm Howard al Leone Rosso, Asher. Mi ha detto che ti ha visto nuotare nella Charlton Bay» dichiarò il fratello minore del duca a un certo punto.

   «Ho portato Artemide a fare una passeggiata lungo la spiaggia. Credo che si stesse riferendo a questo» ribatté Asher mentre prendeva qualche fetta di pane tostato.

   «Voi nuotate, Emma?» chiese allora Taris, cambiando obiettivo.

   «Sì, molto bene» rispose Asher al posto della giovane con una certa irritazione, che suscitò nel fratello un gran divertimento.

   Lucinda invece non fu in grado di cogliere né l'irritazione di uno né il divertimento dell'altro.

   «Allora dovete assolutamente insegnarmi a stare a galla» dichiarò con fermezza. «Che cosa indossate per nuotare?»

   Emerald arrossì e chinò il capo per tagliare la frittata che aveva nel piatto.

   «Con la temperatura che ha l'acqua qui in Inghilterra, mi arrischierei al massimo a infilarvi un piede fino alla caviglia» mentì spudoratamente.

   Si accorse che mentire senza che nessuno lo sapesse era decisamente diverso dal dire una bugia davanti a chi sapeva la verità.

   Asher l'aveva vista nuda, l'aveva stretta fra le braccia. Sapeva benissimo che lei nuotava anche nel mare gelido dell'Inghilterra.

   Non si era mai sentita così in imbarazzo e l'espressione meravigliata di Lucinda non migliorava la situazione.

   Quando Asher si alzò da tavola, lo benedisse dal profondo del cuore.

   «Starò a Rochcliffe per il resto della giornata» comunicò a Taris. «Se decidessi di restarci anche la notte, te lo manderò a dire.»

   Un cenno alle signore e stava già per andarsene. Il sole che entrava nella sala da pranzo dava ai suoi capelli neri delle sfumature bluastre e rendeva ancora più duri i lineamenti del suo viso.

 

   Emerald andò a dormire alle dieci, dopo aver trascorso un'ora in biblioteca con Taris, a giocare a scacchi. L'assenza di Asher per tutta la giornata era stata un dono del cielo, perché aveva potuto esplorare ancora Falder alla ricerca del bastone di suo padre.

   Dov'era? Dove l'avrebbe nascosto se fosse stata la proprietaria di quella casa?

   Se Falder fosse stata più piccola, tutto sarebbe stato più facile. Ma, con tutte quelle stanze e quei passaggi, era un vero labirinto.

   Emerald si sistemò i cuscini dietro la schiena e da lì sotto spuntò l'armonica.

   Azziz le aveva insegnato a suonarla sulla Mariposa, durante i lunghi turni di guardia.

   Quindi incominciò a suonare, una melodia dolce e rilassante, così in contrasto col gelo di Fleetness.

   Quelle note sembravano ricreare un po' dell'atmosfera dei Caraibi, con il sole e il caldo, la gente espansiva e colorata, la vita facile, una società che sembrava avere meno pregiudizi.

   Ma i pregiudizi c'erano, eccome, e lei stessa ne aveva fatto le spese.

   Ruby aveva danzato sulle musiche che lei suonava, quando vivevano nello squallore di King­ston, in Harbour Road.

   Lì a Falder era tutto bello, tutto diverso, avrebbe voluto che la sua sorellina potesse vedere un simile paradiso.

   All'improvviso udì dei passi affrettati nel corridoio e poi qualcuno che bussava impaziente alla sua porta, facendo svanire il sorriso dalle sue labbra.

   L'armonica sparì di nuovo, Emerald indossò una vecchia vestaglia che aveva trovato nell'armadio. Poi aprì la porta.

   Davanti a lei c'era Asher, con gli occhi arrossati per il troppo bere e l'ombra di una barba di dodici ore sulle guance.

   «Devo parlarvi» le disse.

   «Adesso?»

   «Sarà solo questione di qualche minuto.»

   Emerald non sapeva che cosa fare.

   Doveva chiedere ad Asher di entrare? Ne dubitava. Una fanciulla nubile non chiedeva a un uomo vedovo di entrare nella propria camera da letto, soprattutto di notte. Ma le cose cambiavano se l'uomo era il padrone di casa?

   Nel dubbio, gli fece segno di entrare ma non si mosse dalla soglia.

   «No, non entrerò... Dove vi siete fatta fare quel tatuaggio? La farfalla, intendo dire.»

   Aveva un'ottima vista, constatò Emerald.

   «In Giamaica» gli rispose.

   «In Giamaica? Ed è normale da quelle parti che la figlia di un padre devoto...»

   «Conosciamo entrambi la risposta a questa do­manda. Mio padre non era esattamente come lo si sarebbe immaginato.»

   «E com'era, allora?»

   «Era un uomo disilluso dalla vita.»

   Asher cambiò argomento e lei gliene fu grata.

   «Taris mi ha detto che siete brava a giocare a scacchi. È raro che qualcuno riesca a sconfiggerlo. Dove avete imparato?»

   Sulla Mariposa, stava per rispondere Emerald. Si fermò appena in tempo.

   «Mi ha insegnato uno zio, tanto tempo fa.»

   «Vi ha insegnato bene, non c'è che dire... Ma, adesso che ci penso, mi era sembrato di sentire il suono di un'armonica provenire da questa stanza. Eravate voi a suonare?»

   Non gli si poteva nascondere nulla. Emerald tirò fuori l'armonica e Asher la esaminò con cura, senza nascondere una certa perplessità.

   «La mia famiglia vi apprezza, Lady Emma. Quando il vostro nome viene menzionato, mio fratello e mia sorella cantano le vostre lodi, e non è da Taris essere entusiasta di qualcuno.»

   «Come è avvenuto l'incidente in cui ha perso la vista?»

   «È un incidente che non sarebbe mai dovuto capitare...»

   «Ve ne sentite responsabile? Sono sicura che vostro fratello non ne dà la colpa a voi.»

   «No, è vero. Ma non sarebbe successo se io fossi stato più prudente.»

   Emerald allora capì il senso di colpa che perseguitava Asher. Un uomo così complesso, così virile e contemporaneamente così vulnerabile.

   «Domani dobbiamo andare a Longacres per cenare con i Graveson. Se voi preferite non venire...»

   «Invece desidero venire.»

   «In questo caso preparatevi per le cinque. Torneremo a casa prima di mezzanotte.»

   Delle voci arrivarono dalle scale. In un attimo il Duca di Carisbrook alzò il bavero della giacca e se ne andò.

 

   Mancavano solo due ore alle cinque ed Emerald non aveva nulla da mettersi per andare a cena dai Graveson.

   L'ultimo dei vestiti che le erano rimasti non era adatto all'occasione, anzi, a dire la verità, non era adatto a nessuna circostanza, visto com'era malconcio.

   Emerald in quel momento avrebbe dato qualunque cosa per un semplice abito senza pretese, che le andasse bene.

   Anche i guanti di seta grigia, che non si toglieva mai, stavano andando a pezzi e non sapeva assolutamente con che cosa sostituirli.

   Bussarono alla porta ed entrò Lucinda, che fece il muso lungo quando vide l'abito che Emerald stava guardando.

   «Non avrete in mente di metterlo stasera, spero. Annabelle dà molta importanza alla moda, sapete?»

   «Temo che la deluderò profondamente.»

   «Non amate la moda?»

   «Preferisco spendere il mio denaro per acquistare altre cose.»

   «Per esempio?»

   «Per esempio dei bei libri.»

   «È vero? No, state sicuramente scherzando. Posso chiamarvi Emma?»

   «I miei amici mi chiamano Emmie.»

   «In questo caso, Emmie, ho un vestito che fa proprio per voi, in camera mia. L'ha lasciato una mia cugina che non se la prenderà affatto se lo presto a voi.»

   «Ne siete sicura?»

   «Ha un carattere dolcissimo ed è una delle migliori persone che io conosca» rispose convinta Lucinda.

 

   Un'ora dopo Emerald non si riconosceva più. Stava davanti allo specchio nella camera da letto di Lucinda e si fissava attonita.

   Il vestito che la sorella di Asher le aveva prestato era il primo a sembrare confezionato appo­sta per lei.

   Non era né troppo grande né troppo piccolo, non aveva una scollatura troppo ampia o troppo stretta né maniche troppo lunghe o troppo corte.

   Tutto era giusto, ma soprattutto il colore era in­dovinato, un blu notte bordato di seta grigia scura che si intonava al meglio con i suoi capelli.

   Sembrava davvero una giovane dama dell'alta società, soprattutto perché Lucinda aveva trovato un paio di orecchini di topazio appartenuti a sua nonna e glieli aveva prestati.

   «Come mai tanti buchi nelle orecchie?» si era meravigliata Lucinda quando glieli aveva messi.

   «Così si usa in Giamaica.»

   «E si usa anche indossare sempre i guanti, perfino quando cadono a pezzi?»

   «No, è una mia scelta personale.»

   «Allora dovreste farla diventare una moda» ribatté Lucinda, prendendo dall'armadio un paio di guanti di pizzo bianco, lunghi fino ai gomiti.

   Emerald non poté fare a meno di togliersi i guanti grigi. Lo fece dopo un attimo di esitazione e sperò che Lucinda non stesse guardando.

   Lucinda, invece, aveva visto.

   «Vorrei che non lo diceste a nessuno.»

   Per un solo minuto le sue mani erano rimaste avvolte dalle fiamme, prima che lei si tuffasse in mare, ma tanto era bastato per trasformarla in un mostro che spaventava i bambini, se posavano gli occhi sulle sue carni bruciate.

   «Non lo dirò a nessuno, ve lo giuro. Vi fanno male?»

   «No.»

   La mente di Emerald tornò a quel giorno lontano, nelle acque della Giamaica, un anno dopo aver incontrato Asher Wellingham. Azziz era dietro di lei insieme a Solly Connors. La cannonata aveva colpito Solly facendogli volare via la testa, un telo bagnato dalla pioggia della notte aveva riparato in parte lei e Azziz. Sentendosi cadere, aveva cercato di aggrapparsi al telo, ma le sue mani erano in fiamme. Era finita in mare e, quando l'avevano ripescata, il dolore era stato infernale.

Il villaggio di Thornfield apparve dopo un quarto d'ora di carrozza ed Emerald fu contenta di vederlo.

Asher non le aveva rivolto la parola per tutto il tragitto, non si era nemmeno accorto del suo abito nuovo e di come le stesse bene.

   Emerald aveva sempre considerato un'imbecillità i languori femminili per i complimenti maschili, ma non quel giorno. Era veramente addolorata dalla sua negligenza.

   Si spostò e dispose con cura la seta dell'ampia gonna. Nel crepuscolo il brillio argenteo del tessuto era più evidente, ma neppure questo attirò l'attenzione del Duca di Carisbrook.

   «Devo passare dal Nautilus per lasciare alcuni disegni a uno dei miei uomini» la informò guardandola appena. «Potete restare in carrozza, se volete.»

   Salire sul Nautilus? Emerald, che non chiedeva di meglio, fece fatica a contenere la propria emozione.

   «Troverete piuttosto difficile salire a bordo» obiettò Asher quando lei manifestò la propria volontà.

   «Non voglio essere d'impiccio in alcun modo, cercherò di cavarmela da sola» gli disse aprendo il ventaglio e cominciando a farsi aria con un notevole vigore.

   Lui non rispose mentre la carrozza girava per entrare nel porto.

 

   Asher l'aiutò a salire sulla passerella. Il mare che ondeggiava era come una carezza per le sue gambe, Emerald inalava a ogni istante il profumo di salsedine.

   «Tutto a posto?» le chiese il duca afferrandole il gomito per guidarla.

   Lei perse l'equilibrio e gli finì addosso.

   «Mal di mare» decretò Asher. «A volte colpisce all'improvviso.»

   «Non soffro di mal di mare» ribatté Emerald. «La vostra è una bella nave.» Avrebbe potuto disegnarne ogni particolare a occhi chiusi. «Avete navigato parecchio?» gli domandò poi.

   «Sì, ma da qualche anno ho perso il gusto di solcare i mari. Venite, la sala delle mappe è da questa parte.»

   Emerald obbedì ma inciampò nell'orlo del vestito nuovo. Asher la prese al volo, impedendole di cadere come già aveva fatto la prima sera in cui si erano incontrati, e l'alzò con la stessa facilità. La portò nell'alloggio del capitano, dove l'odore del legno si mescolava con quello delle lampade a olio.

   La stanza era avvolta nella semioscurità. Solo la cravatta bianca di Asher risaltava nella fioca luce dei pochi lumi accesi.

   «Come riuscite a farmi questo? Come potete farvi desiderare così tanto?» le chiese il duca pri­ma di accarezzare con la punta della lingua la pelle del suo braccio, sopra l'orlo del guanto. Emerald rimase senza fiato.

   «Asher...» riuscì soltanto a mormorare mentre con la mano accarezzava i suoi capelli del colore della notte.

   Sapeva benissimo a che cosa si stava riferendo Asher, perché lo stesso sentimento animava anche lei.

   Lui la baciò quasi con rabbia e lei non fece nulla per fermarlo. Non voleva fermarlo. Lì nella cabina, cullata dalle onde, le sembrava di essere tornata in Giamaica.

   «Emma, quanto vi desidero...»

   Dimmelo ancora. Dimostramelo. Prendimi.

   «Emma...»

   Emerald.

   Per la prima volta le diede fastidio che lui non la chiamasse con il suo vero nome.

   Le aveva scoperto il seno, con un bacio sfiorò uno dei suoi capezzoli.

   «Da quando ho visto che non portate biancheria sotto il vestito, ho sognato di baciarvi qui» le confessò con voce roca.

   Appoggiò le sue labbra fra i due seni, facendola tremare d'emozione.

   «Volevo sentire il sapore della vostra pelle dorata dal sole.»

   Emerald guardò la sua bocca così ben disegnata, accarezzò le sue guance su cui stava già ricrescendo la barba e le sembrò di perdere completamente il controllo di sé.

   Il rumore di passi pesanti li riscosse.

   «Maledizione!» imprecò Asher facendo il possibile per richiudere il vestito di Emerald e per renderla presentabile.

   «Mi sembrava di avervi sentito» disse un uomo scendendo la scaletta che, dal ponte, portava agli alloggi dei graduati.

   «Ecco Peter Drummond, mio vecchio amico e capitano di questa nave. Peter, questa è Lady Em­ma Seaton» la presentò Asher con grande disinvoltura.

   «Non avete ricevuto il mio biglietto?» gli chie­se Drummond.

   «Quale biglietto?» domandò Asher.

   «Quello che riguardava il nostro incontro.»

   Dal modo in cui parlava, si capiva che il capitano non voleva dire molto davanti a lei. Perciò Emerald uscì dalla cabina e si diresse sul ponte.

   Se non fosse arrivato Peter Drummond, che cosa sarebbe accaduto fra lei e Asher? Non voleva pensarci.

   «Sono la figlia del pirata» si disse per non dimenticarlo mai più.

   Le tornarono in mente i motteggi dei bambini di Kingston, quando la Mariposa aveva attraccato in porto per alcune riparazioni, e gli sguardi diffidenti dei loro genitori.

   Non c'erano state difficoltà, Beau terrorizzava con la sua fama e nessuno aveva osato darle fastidio. Suo padre teneva a distanza tutti con la paura e non era mai sincero.

   Come lei, del resto, che non aveva detto a nessuno la verità, men che meno ad Asher.

   Il pensiero la fece star male.

 

   Quando, dieci minuti più tardi, si riunì al duca, vide che era di cattivo umore e sembrava più minaccioso del solito.

   La luce del tardo pomeriggio rendeva più scuri i suoi capelli e la sua pelle abbronzata e donava dei riflessi di velluto ai suoi occhi.

   Era bello, ammise semplicemente Emerald.

 

   Si erano allontanati dal porto di più di un miglio, quando Asher parlò di nuovo, con una voce che a Emerald sembrò sconosciuta.

   «Chi sono gli uomini accampati nel bosco?» le domandò.

   «Non capisco» rispose lei per prendere tempo.

   «Gli uomini che avete portato con voi dalla Giamaica. Adesso sono più chiaro?»

   «Chi vi ha detto di quegli uomini?»

   «Peter Drummond me ne ha appena parlato e, prima di lui, Tony Formison. Suo padre è il proprietario della nave con cui siete giunta dalla Gia­maica e Tony mi ha detto di avervi visto scendere a terra con due uomini di colore, molti libri e i capelli molto più lunghi di come li avete adesso.»

   Emerald non tentò di negare. «Sono con me per proteggermi.»

   «Proteggervi? E da chi?»

   «Da voi, per esempio. Che cosa credete che accadrebbe se ci avessero sorpresi poco fa, nell'al­loggio di Drummond?»

   «Che cosa sarebbe accaduto?»

   «Immagino che vi avrebbero ucciso.»

   «Ucciso? Me?»

   «Vi sembra così improbabile? Non sfidate i miei servitori.»

   «Se sono vostri servitori, perché non mi avete chiesto di alloggiarli a Falder?»

   «Si sono accertati che io fossi al sicuro e che voi vi comportaste da gentiluomo. Ci tengono alla loro indipendenza.»

   «Come comunicate con questi uomini?»

   «Con una candela» confessò Emerald, evitando di dire un'altra bugia.

   «Con cui li avete invitati a frugare in casa mia con maggiore competenza di quanta ne abbiate voi?»

   «Le cose non stanno come voi pensate.»

   «No? E allora come stanno? Avanti, parlate, vi sto ascoltando.»

   «Non posso» affermò Emerald semplicemente.

   «Non potete perché entrambi sappiamo che voi, Lady Emma Seaton, siete una bugiarda. Una bella, affascinante bugiarda ma pur sempre una bugiarda.»

   «Sì» ammise lei con disarmante sincerità.

   Era una bugiarda e, se fosse riuscita a mettere le mani su quella dannata mappa, sarebbe diventata anche una ladra. Ma la sua pelle bruciava ancora per i baci del duca, tutto quello che lei voleva veramente era sentire ancora il calore delle sue labbra sulle proprie.

   Quando apparve la casa dei Graveson fu un vero sollievo.

 

   La cena fu orribile.

   Certo, Annabelle Graveson aveva fatto il possibile per offrire ai suoi ospiti un menu raffinato e suo figlio Rodney era la personificazione del bravo padrone di casa, ma Asher era taciturno e rivolgeva a Emerald sguardi diffidenti.

   Emerald sentiva la mancanza del suo sorriso, delle sue parole scherzose e non riusciva a pensare ad altro.

   Faticava a prestare attenzione a quello che Ro­dney stava dicendo. Parlava di armi, un argomen­to che a Emerald non era mai piaciuto.

   «Il duca mi sta insegnando a sparare» disse a un tratto il giovane.

   «Davvero? Il Duca di Carisbrook?» sottolineò Emerald con il tono incredulo di chi non avrebbe mai immaginato Asher capace di sparare un colpo.

   «Sì. Avete qualche difficoltà a crederlo possi­bile?» le domandò Asher.

   «Assolutamente no.»

   «Ne sono felice.»

   Annabelle Graveson sembrava lontana da tutto e da tutti mentre metteva la sua mano su quella di Emerald. Al dito aveva un anello con un diamante dalle dimensioni di una piccola roccia. Era di­ventata ricca dopo la morte del marito.

   «Vorrei regalarvi dei vestiti, Lady Emma. Me lo permettete?»

   «Vestiti?»

   Emerald non capiva la ragione di un simile dono.

   «Per la vostra stagione londinese.»

   «Oh, no, Lady Annabelle!» si schermì Emerald.

   «Perché mi considerate un'estranea? Spero che le cose possano cambiare in breve tempo.»

   Neppure Asher riusciva a capire i motivi di una simile offerta.

   «Lady Emma vive dalla Contessa di Haversham, Annabelle, che provvede a tutti i suoi bisogni» le disse.

   «Certo, certo. Quand'è il vostro compleanno, mia cara?»

   «Il tre di novembre» rispose Emerald all'inaspettata domanda.

   Annabelle si asciugò gli occhi.

   «No, Rodney, sto benissimo. Non mi sono mai sentita meglio in vita mia» disse al figlio, che si era preoccupato vedendola sul punto di piangere.

   Poi si dedicò completamente al budino che era stato appena servito, divorandolo in un baleno.

 

   «Sono persone insolite e particolari» commen­tò Emerald due ore dopo, mentre lei e Asher tornavano a casa in carrozza.

   Il duca non rispose.

   «Insolite e particolari, ma molto gentili» si corresse lei, temendo che si fosse offeso.

   Di nuovo nessuna risposta.

   «Annabelle sembra una donna molto timorosa» aggiunse ancora Emerald.

   «Mentre voi non lo siete affatto. Ditemi una cosa di cui avete paura.»

   Emerald non replicò e il duca scoppiò a ridere.

   «Vi sono grato di non avermi mentito.»

   «Non vi ho mentito quando vi ho parlato di mio fratello James.»

   «Lo so.»

   James non le era mai sembrato così vicino, forse perché ne aveva parlato con Asher e lui era rimasto ad ascoltarla.

   Un uomo che sapeva ascoltare, ecco che cosa desiderava, un uomo da rispettare e da amare, ma con il fantasma del padre che continuava ad aleggiare fra di loro tutto ciò era un sogno impossibile. Meglio pensare a trovare il bastone e a fuggire, finché era ancora in tempo.

   Asher si stava massaggiando una gamba.

   «Non usate un bastone?» gli chiese lei.

   «Un bastone?»

   «Per alleggerire il peso sulla gamba. Mio zio era rimasto ferito a Waterloo e usava un bastone per camminare, non ne avrebbe più saputo fare a meno.»

   Stava parlando troppo, ma doveva trovare quel dannato bastone.

   «A me piacciono molto i bastoni da passeggio. A dire la verità li colleziono» continuò Emerald.

   Non sembrava interessato, ma lei proseguì.

   «Ne ho venti, provengono un po' da tutte le parti del mondo.»

   La conversazione lo annoiava profondamente.

   «Se ne avete a Falder» continuò lei con disinvoltura, grazie al buio della carrozza, «sarei lieta di esaminarli e dirvi quanto valgono.»

   Nel silenzio e nell'oscurità della carrozza a Emerald sembrò di sentire gli ingranaggi del cervello di Asher che si muovevano.

   «È per caso un bastone quello che state cercando in casa mia?»

   «No» mentì subito lei, mentre le luci di Falder apparivano nel buio della notte.

   «Che cosa è successo alle vostre mani? È un altro dei misteri di Emma Seaton? Se studiassi la storia della vostra famiglia, quale sarebbe la vostra parentela con Lady Miriam?» l'incalzò lui.

   «Lady Miriam è mia zia» dichiarò Emerald mentre lo sportello della carrozza si apriva e uno dei valletti si inchinava cerimoniosamente.

   Se Asher avesse scavato un po' nella storia della famiglia di Miriam, avrebbe scoperto che suo fratello era Beauvedere Sandford Louden e lei sarebbe stata spacciata.

   Doveva andarsene al più presto da Falder e dimenticarsi della mappa, pensò entrando in casa.

   Ma come avrebbe potuto proteggere Ruby e Miriam?

 

   Asher vagava a cavallo sulle colline davanti al mare, maledicendo il biglietto che aveva in tasca. Il biglietto che aveva trovato sotto la sua porta tornando all'alba in camera sua.

   Emma Seaton se ne era andata.

   Era tornata a Londra, in Giamaica o Dio solo sapeva dove.

   La giumenta che stava cavalcando si imbizzarrì. Asher la calmò mormorandole alcune parole. Desiderava Emma ancora di più, adesso che se ne era andata. Nemmeno con Melanie aveva speri­mentato una bramosia del genere.

   «Smettila» ordinò a se stesso.

   Emma era una bugiarda e una ladra, avrebbe dovuto cacciarla di casa la notte in cui l'aveva sorpresa vestita da uomo. Perché allora non l'ave­va fatto?

   Perché l'ammirava, perché la desiderava, perché non era come tutte le altre donne che aveva conosciuto.

   Ma perché Emma non si fidava di lui? Perché preferiva fuggire piuttosto che chiedere il suo aiuto?

   Con un'ultima imprecazione Asher girò il cavallo per tornare a casa.

 

   «Emmie se n'è andata» gli disse Lucinda sotto il portico, al suo ritorno a casa.

   «Emmie?»

   «Mi aveva detto che i suoi amici la chiamavano così.»

   «E non ti ha detto, per caso, perché se ne è dovuta andare?»

   «No, ma mi ha lasciato questo biglietto.»

   Erano alcune righe di ringraziamento per averle lasciato usare il vestito di sua cugina e gli orecchini della nonna. Inoltre vi aveva scritto di dover tornare a Londra con sua zia, senza motivare però la decisione.

   «Secondo me non è andata via di sua volontà, ma è stata spinta dal tuo atteggiamento. Tu hai sempre detestato Emmie perché lei è piena di vita e ti fa ricordare il tempo in cui anche tu ridevi e...»

   «Basta così, Lucinda» tagliò corto Asher.

   «Non mi potrai impedire di continuare a vederla a Londra, perché a me Emmie piace.»

   Lucinda se ne andò dopo essersi ripresa il biglietto. Avrebbe fatto come voleva, era giovane e ribelle. La vita non l'aveva ancora segnata, pensò Asher mentre si dirigeva verso la biblioteca.

   In biblioteca trovò Taris. Quando suo fratello si tolse gli occhiali per pulirseli e Asher notò che l'occhio destro era stranamente opaco.

   «Emma Seaton se n'è andata?»

   Il tono della domanda ricordava un po' troppo quello di Lucinda e Asher non aveva voglia di litigare.

   Prese un sigaro da una scatola, ne tagliò la punta e lo accese sedendosi in poltrona.

   «Quando nostro padre morì, mi fece giurare che non avrei mai perduto Falder perché fra mille anni sarebbe stata la testimonianza che noi eravamo vissuti» disse per cambiare argomento.

   «Dio mio, Asher! Hai pensato che Emma potesse costituire una minaccia per Falder? Quando?»

   «Quando l'ho sorpresa in abiti maschili, di notte, che girava per casa.»

   «Le hai chiesto che cosa cercava?»

   «Gliel'ho chiesto, ma non mi ha risposto. Qualcuno, però, ha cercato di aprire la mia cassaforte.»

   «Credi che lei ne sarebbe capace? Di aprire la tua cassaforte, intendo dire.»

   «Perché no?»

   «Chi l'ha mandata?»

   «Non me lo avrebbe mai detto.»

   «Asher, quella donna è nei guai e credo che la cosa non ti lasci indifferente. Lo capisco dalla tua voce che l'ammiri. Quindi, se speri ancora di avere un erede per Falder, è il momento di agire» gli disse il fratello giocherellando con il segnalibro di una copia della Duchessa di Amalfi di Webster.

   Che cosa provava per Emma? Ammirazione, simpatia, amore? Non lo sapeva, ma forse Taris l'aveva capito. «Perché non provi tu a dare un erede a Falder?» gli propose in tono cinico.

   «È difficile catturare una donna quando non la vedi.»

   «I Caraibi hanno portato disgrazia sia a te sia a me» concluse Asher.

   Vide che Taris si irrigidiva e ricordò le circostanze in cui aveva perso la vista.

   Suo fratello era andato a salvarlo dalla prigionia e ci era riuscito, ma durante l'operazione di recupero era stato colpito alla fronte.

   Erano sopravvissuti entrambi, anche se a stento, e questo doveva bastare.

   «Domani andrò a Londra e indagherò su Lady Emma.»

   Taris sorrise sentendo queste parole.

   «Non sperare inutilmente, Taris. Lo faccio solo per stare in pace con la coscienza.»

   «Verrò anch'io a Londra.»

   «Tu? È da anni che non ci metti piede. Lo farai per lei?»

   «Sì» replicò il giovane in tono deciso.

   Quello era un bel problema.

   Asher non voleva che Taris sentisse le chiacchiere che circolavano sulla sua vista. La governante, Mrs. Wilson, arrivò prima che potessero continuare.

   «Ho sentito che Lady Emma Seaton è partita. Volevo chiedervi...»

   Asher le fece segno di seguirlo in un'altra stanza, lasciando insoddisfatta l'evidente curiosità del fratello.

   «Il fatto è che Lady Emma non dormiva mai nel letto, ma sopra alcune coperte ripiegate, vicino al balcone. Forse preferiva l'aria aperta. Che cosa devo fare? Lasciare tutto com'è o rimettere a posto?» gli domandò la donna, chiaramente in imbarazzo.

   «Andrò io a vedere, Mrs. Wilson» promise Asher.

   «Mi dispiace moltissimo che Lady Emma se ne sia andata. Era così gentile, così ordinata. E che cosa farò di tutte le conchiglie che aveva raccolto?»

   Asher scoppiò a ridere.

 

   Cinque minuti dopo saliva le scale per andare nella camera di Lady Emma.

   Trovò il letto sfatto, come gli aveva preannunciato la governante. Emma non vi aveva mai dor­mito, le lenzuola erano accuratamente ripiegate l'una sull'altra. Vicino al balcone, c'era un nido fatto di coperte. Era lì che Emma passava le sue notti. Inoltre, due poltrone erano state avvicinate alla finestra e unite a formare una piattaforma.

   Asher vi salì sopra e si rese conto che da quella posizione riusciva a vedere il mare, anzi, quasi a sentirlo.

   Era di sicuro quello lo scopo per cui Emma le aveva spostate. Il suo amore per l'oceano doveva essere assoluto.

   Sulla scrivania trovò la scatoletta di latta che conteneva la candela, la stessa che lei aveva usato per fare segnali ai suoi uomini nel bosco oppure per esplorare Falder Castle durante notte, alla ricerca di qualcosa da rubare.

   Un gioco pericoloso, ma lei sembrava nata per il pericolo.

   Asher desiderò che Emma fosse ancora nella sua casa, dove poteva proteggerla, poi però si maledisse per averlo pensato.

 

   Era tardi quando Asher, Lucinda e Taris arrivarono a Londra. Jack Henshaw, che li aspettava a Carisbrook House, aveva per loro notizie allarmanti.

   «La Contessa di Haversham è malata e Lady Emma ha mandato via il medico e ha preso in mano la situazione. Gregory Thomas, il dottore, è mio amico e mi ha detto di aver visto la contessa a letto mentre un servitore di colore grande e grosso faceva bruciare dell'olio profumato in una coppa e la nipote le conficcava degli spilli nel collo. Molti dicono che è stregoneria.»

   Asher imprecò. Se Emma fosse stata accusata di stregoneria, sarebbe stato un guaio serio.

   «Perché ha fatto una cosa simile? Non le importa della sua reputazione?» chiese Lucinda.

   La risposta era semplice. A Emma non importava più di ciò che si poteva pensare di lei a Londra perché stava per ripartire per la Giamaica.

 

   Quando Jack se ne andò, Taris rimase a chiacchierare con suo fratello.

   «Se hai un tallone d'Achille, Asher» gli disse, «questo è il tuo bisogno di controllare ogni cosa.»

   «Stai parlando di Emma Seaton?»

   «Ti comporti come se fosse colpa tua tutto quello che fa. Fai lo stesso con me e io, nonostante il calo della mia vista, non posso evitare di notarlo. Io sono quello che sono e anche Emma è così.»

   Asher picchiò un pugno sulla parete rivestita di legno.

   «Quindi dovrei permetterle di ritornare in Giamaica?»

   Taris sorrise. «Allora, mio caro fratello, non è solo bisogno di controllo e senso di responsabilità, ma qualcosa di più» concluse e se ne andò lasciando Asher da solo con le sue domande.

   Più del dovere di proteggerla?

   Più dell'amicizia?

   Per un attimo Asher immaginò Emma nelle vesti di Duchessa di Carisbrook e, in quanto tale, immune da ogni critica.

   Ecco il modo in cui avrebbe potuto proteggerla, ma Emma sarebbe stata disposta a sposarlo? Ne dubitava.

   «Signore, ti prego, aiutami» mormorò.

   Si stava domandando che cosa dovesse fare quando il suo sguardo cadde su un bastone vicino alla porta, ed ecco che nella sua mente si affacciò la conversazione che lui ed Emma avevano avuto tornando da Longacres, a proposito dei bastoni da passeggio.

   In un angolo di quel salotto c'era un mobiletto appoggiato al muro, seminascosto dalle tende, che conteneva due di quegli oggetti. Uno era d'ebano e d'avorio e Asher si ricordò all'improvviso di averlo preso sulla Mariposa. Doveva avere un certo valore perché era incastonato di pietre preziose.

   Era quello che Emma stava cercando?

   Incuriosito, lo prese in mano e lo accarezzò.

   E se quel bastone avesse nascosto un segreto? Forse Emma lo stava inseguendo così disperatamente non per il suo valore intrinseco, ma perché conteneva qualcosa di importante.

   Cercò con le unghie finché non trovò una chiusura a tappo e l'aprì. Il bastone in realtà era cavo e dentro vi era celato un foglio arrotolato.

   Il duca lo tirò fuori e lo distese sul tavolo.

   Una mappa, ecco quello a cui Emma mirava! La mappa di un luogo lontano che doveva custodire un tesoro, almeno per lei.

   Asher la contemplò a lungo, poi la mise in un cassetto segreto della sua scrivania e scrisse una nota.

 

   Più tardi Asher sentì dei rumori nel corridoio.

   Chi era?

   Emma?

   Corse a vedere ma non trovò che due uomini.

   Lo accolsero con una bastonata sulle spalle che lo mandò a finire sul pavimento.

   «Dov'è quella maledetta mappa?» gli chiese il più grosso dei due.

   Il suo accento era così simile a quello di Emma...

   I suoi uomini si erano stancati di aspettare e avevano deciso di intervenire da soli?

   Asher si rialzò all'improvviso cercando di aggredirli, ma fu fermato dalla lama di un coltello che gli affondò nel braccio.

   Il sangue cominciò a sgorgare copiosamente, il colpo doveva aver preso un'arteria.

   Un senso di vertigine lo stava sopraffacendo, non riusciva a tenere gli occhi aperti.

   «Chi diavolo siete?» chiese il duca mentre sentiva avvicinarsi dei passi concitati.

   Anche i due se ne accorsero, il più grosso afferrò il braccio del più piccolo e insieme fuggirono.

   «Chiamate un medico!» ordinò Asher a Lucinda e a Taris quando lo raggiunsero con quattro servitori al seguito.

 

   Asher rinvenne nel proprio letto.

   Lucinda era seduta lì accanto e si vedeva che aveva pianto. Il fratello minore era in piedi vicino alla finestra.

   «Che cosa è successo?» chiese Asher e fece una grande fatica a parlare. Non si era mai sentito così stanco in vita sua.

   «È successo che per poco non sei morto dissan­guato. Non saresti ancora vivo se Lady Emma non fosse arrivata a salvarti, subito dopo l'aggressione, ben prima che il medico che avevamo mandato a chiamare arrivasse» gli rispose Taris.

   «Ti ha strappato una manica della camicia e l'ha legata sulla parte superiore del braccio, poi ha premuto forte sulla ferita per arginare l'emorragia. Fatto questo, ha preso un coltello che aveva con sé, l'ha scaldato sul fuoco del caminetto e ha cauterizzato la ferita. Il tutto nel giro di pochi minuti. Quando è arrivato il dottor MacLaren, se n'era già andata senza dire una parola, e lui non ha fatto al­tro che bendarti il braccio.»

   «Dov'è andata?»

   «È a Londra, così mi ha riferito l'unica domestica che ho trovato nella casa di Lady Haversham. A casa di amici, mi ha confidato, ma non se ne ricordava il nome» lo informò il fratello.

   Asher tentò di alzarsi, ma il dolore che irradiò dal braccio lo costrinse a rimanere dov'era e a rimandare altri tentativi.

   «Il dottor MacLaren mi ha detto di darti questo» aggiunse Lucinda sciogliendo in un bicchiere d'acqua un po' di polvere che aveva in un sacchet­tino. «È per il dolore. Ha anche detto di non agitarti troppo o l'arteria potrebbe riaprirsi.»

   «Metti degli uomini di guardia attorno alla casa. Se Emma dovesse tornare, non farla più andare via. Voglio che rimanga qui, al sicuro. È troppo pericoloso per lei starsene in giro» raccomandò Asher al fratello e fu soddisfatto quando questi fece un cenno di assenso. Anche lui si rendeva conto del pericolo.

 

   Asher si svegliò di nuovo verso mezzanotte.

   Emma era accanto a lui, vestita da uomo, e stava manovrando una serie di aghi dentro la sua pelle. Senza guanti, notò lui mentre osservava le cicatrici delle ustioni sulle sue mani. Ma quella notte alla giovane non importava che qualcuno le vedesse.

   «Fermo!» gli ingiunse quando lui si mosse. Poi gli conficcò un ago sotto il gomito. «Porterà via l'infezione» gli spiegò.

   Asher voleva sapere quale fosse la parte avuta da Emma in tutta quella faccenda.

   «Chi...?» tentò di dire, ma non ci riuscì.

   Chi mi voleva morto e perché?

   «È gente delle isole» rispose Emma lentamente, trattenendo a stento la collera. «Ce ne sono parecchi a Londra come loro.»

   «Vogliono uccidermi.»

   «Non glielo permetterò.»

   Asher sarebbe scoppiato a ridere.

   Come pensava di impedirglielo?

   Il duca non aveva idea di quanto tempo fosse passato dal suo ferimento. Un giorno? Due? Una settimana?

   «Guardate sotto il letto» le disse con le sue ultime forze.

   Emma si piegò e vide il bastone di ebano che aveva tanto cercato.

   «Non è stato difficile aprirlo.»

   «Aprirlo?» ripeté Emerald con il tono più sorpreso del mondo, come se cadesse dalle nuvole.

   Le insegnò come fare, mentre lei pensava che forse sarebbe potuta fuggire con il bastone, se Asher si fosse addormentato.

   Emma seguì le sue istruzioni, tolse il tappo ed estrasse dalla cavità interna un pezzo di pergamena spiegazzato con il sigillo dei Carisbrook. Vi era scritto: Se volete quello che il bastone conteneva, dovete prima fidarvi di me.

   «Dov'è la mappa?»

   «Non è qui. Dove sono i vostri uomini?»

   «Qui fuori.»

   «Fateli entrare.»

   Emma andò alla finestra, da cui lei stessa era entrata, e accese la candela che aveva con sé. Toro e Azziz arrivarono subito ed entrarono nel medesimo modo, con le pistole nella cintura e un coltello fra i denti. Non erano semplici servitori ma pirati.

   «Vorrei che Lady Emma venisse con me a Falder» disse Asher, augurandosi che a sua sorella non venisse in mente di andare a fargli visita nel bel mezzo della notte. «Lei e sua zia, Lady Miriam, saranno mie gradite ospiti» aggiunse in tono autoritario.

   I due uomini avevano visto il bastone. Uno di loro prese il coltello che aveva fra i denti e lo appoggiò alla gola di Asher.

   «Non voglio che gli facciate del male!» si intromise Emerald.

   «Sono felice che Lady Emma e sua zia Miriam stiano con voi» disse l'arabo senza badare alle proteste del nero. «Ma ricordatevi che, se cercherete di imbrogliarci, l'ultima cosa che sentirete sarà la lama del mio coltello.»

   Asher si appoggiò ai cuscini. Il sangue gli pulsava nelle orecchie. Perché non dava loro la mappa così da tirarsi fuori da quella faccenda una volta per tutte?

   La risposta era anche troppo facile: Emma. I loro destini erano ormai intrecciati.

   «Voglio la vostra protezione per me e per le due signore durante il nostro viaggio di ritorno a Falder. Vi pagherò bene, non dubitate» aggiunse.

   «Ma a voi che cosa ne viene in cambio?» gli domandò il nero.

   «L'estinzione di un vecchio debito.»

   Emma trasalì. Smise di lisciare i guanti che si era rimessa prima che arrivassero i due servitori e guardò Asher.

   L'aveva riconosciuta? Sapeva chi era?

   No, era impossibile, così com'era impossibile muoverlo da dove si trovava. Nelle sue condi­zio­ni doveva riposare, aveva perso una gran quantità di sangue.

   Toro e Azziz avrebbero accettato di ricevere ordini da Asher, un uomo ridotto all'ombra di se stesso da quella grave ferita al braccio?

   Che cosa avrebbero detto se, come lei, avessero visto i segni della sferza sulla sua schiena? I segni della schiavitù, che avevano lasciato profonde cicatrici non solo sulla pelle del duca, ma anche nella sua anima?

   Eppure, anche così pallido ed emaciato, Asher irradiava intorno a sé un senso di autorità e di protezione. Sebbene gravemente ferito, sembrava essere ugualmente in grado di proteggere lei, sua zia Miriam e tutti i membri della sua famiglia, servitori compresi.

   Ma Emerald era la figlia del pirata e quella protezione un sogno che non faceva per lei.

   Doveva trovare la mappa e fuggire. Una volta recuperato il tesoro, avrebbe pagato i debiti di suo padre e poi ricostruito St. Clair. St. Clair... Anche solo pronunciarne il nome la faceva star male. Si ricordava la notte in cui era bruciata, quando lei e Ruby avevano visto andare in cenere la casa della loro infanzia. Al mattino erano uscite dal loro nascondiglio e avevano recuperato lo scrigno dei gioielli di Evangeline, che era stato protetto da una trave crollata dal soffitto, insieme a due vasi di porcellana e a una vanga mezza bruciata.

   Niente altro era rimasto del paradiso dei loro primi anni di vita.

   Fece cenno ad Azziz e a Toro di andarsene, poi cominciò a togliere lentamente gli aghi dal braccio di Asher.

   «Quella che viene considerata medicina in Oriente potrebbe essere travisata qui in Inghilterra» la informò Asher.

   «Travisata?»

   «Scambiata per stregoneria.»

   Emerald rise ricordando Wing Jin e le sue pazienti lezioni di agopuntura a bordo della Mariposa. Con quanta calma le aveva insegnato i prin­cipi antichissimi di quell'arte medica!

   «Avete mai sentito parlare del pirata Beau Sandford?» le chiese ancora lui.

   «Era un amico di mio padre» rispose in fretta Emerald, senza badare a quello che stava dicendo.

   «Quell'uomo così devoto aveva per amico un pirata?»

   «Anche un pirata si può redimere» ribatté lei per togliersi dall'impaccio. «Anche se forse voi non lo credete, perché si dice che l'abbiate ucciso.»

   Si era aspettata che lui si vantasse dell'impresa, invece Asher si irrigidì, addolorato, senza riuscire a dir nulla.

   Emerald si voltò per andarsene ma lui la fermò.

   «No, dovete restare. È troppo pericoloso che vi facciate vedere in giro. Promettetemi che rimarrete.»

   «Andavo da mia zia per spiegarle come stanno le cose.»

   «Taris parlerà con vostra zia. Voi restate, non voglio correre rischi.»

  Era pallidissimo, il sudore gli imperlava la fronte e il labbro superiore. Tese la mano per prendere il campanello sul comodino. Lo suonò fino a quando arrivò un servitore che accompagnò Emerald nella sua stanza.

Ogni mercoledì un nuovo capitolo!
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