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Il tesoro nascosto

di SOPHIA JAMES

Inghilterra, 1822 - Durante un ricevimento Asher Wellingham, nono Duca di Carisbrook, rimane folgorato dalla bellezza esotica di una sconosciuta che ha un'aria stranamente familiare. Si tratta di Emerald Sanford, figlia di un pirata dei Caraibi, giunta a Londra dalla Giamaica sotto mentite spoglie per recuperare un raffinato bastone da passeggio nel quale suo padre ha nascosto la mappa di un tesoro. Purtroppo, o forse per sua fortuna, il prezioso bastone è nelle mani di Asher, l'uomo che le ha ucciso il padre. Nessuno dei due ha previsto, però, di innamorarsi perdutamente. E adesso?

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Due ore dopo, una carrozza con lo stemma del Duca di Carisbrook e le tendine tirate arrivò sui moli meridionali del Tamigi.

   «Che cosa ci fa qui il Duca di Carisbrook, a quest'ora di notte?» chiese Emerald a Toro, seduto accanto a lei su un'altra carrozza nascosta nell'ombra.

   Toro scosse il capo facendo dondolare l'anello d'oro che aveva all'orecchio.

   «Forse vuole imbarcarsi. La marea sarà alta prima dell'alba» le rispose.

   Mentre parlavano, Emerald notò una giovane donna, che non aveva mai visto prima di allora, uscire dalla carrozza e scendere a terra.

   Non era sola, con lei era sceso un uomo che le aveva afferrato il polso e che la stava trascinando verso il portico di una delle misere casupole lungo il molo.

   «Non avreste dovuto portarmi qui, Stephen» lo rimproverò la fanciulla.

   «È soltanto per stanotte, Lucy. Domani mattina troverò una nave su cui potremo imbarcarci.»

   «Prima dobbiamo sposarci, me l'avevate promesso. Se mio fratello sapesse che sono qui con voi...»

   «Non vi ho obbligato a venire, Lucinda. Volevate qualcosa di eccitante, vi stavate annoiando» le ricordò lui, continuando a trascinarla verso la casupola.

   «Siete forse ubriaco?» Era stato il cocchiere della carrozza del duca a parlare, dopo essere sce­so da cassetta per aiutare la padroncina. «I miei ordini erano di riportarvi immediatamente a casa, Miss Lucinda.»

   «Tornerò fra qualche minuto, Burton» rispose la gentildonna. «Aspettatemi sulla carrozza, per favore.»

   Burton esitò e questo diede all'altro uomo il coraggio di reagire con rabbia. Con un pugno colpì sulla testa il poveretto, che cadde a terra tramortito.

   «Venite, amore mio. Nessun servo ci impedirà di coronare il nostro sogno d'amore» affermò poi, rivolto alla fanciulla spaventata.

   A Emerald sembrò di rivivere una scena accaduta molti anni prima.

   D'impulso si fece avanti per impedire che alla giovane e inesperta Miss Lucinda accadesse quello che era successo a lei nei Caraibi. Una brutta avventura finita bene solo grazie all'intervento di Toro e di Azziz, che l'avevano salvata dalle disastrose conseguenze della sua sventatezza giovanile.

   Scese dalla carrozza insieme ai due servitori di colore, uno arabo e l'altro africano.

   «Lasciatela andare» ordinò all'uomo, facendo segno a Toro e ad Azziz di rimanere dietro di lei mentre sfoderava il suo coltello.

   Emerald era vestita da uomo e, alta com'era e con i capelli corti, poteva facilmente essere scam­biata per un ragazzo, soprattutto se parlava con quel tono di voce basso e profondo.

   «Chi diavolo siete?» le domandò Stephen.

   «Se fossi in voi» disse Emerald a Lucinda, invece di rispondere al furfante, «ci penserei due volte prima di andare con lui. Potreste pentirvene per sempre.»

   «Di che cosa vi impicciate?» le chiese Stephen.

   Emerald non perse tempo a replicare. Infilò la punta del coltello che aveva in mano nelle pieghe della bella cravatta di seta che Stephen aveva al collo e poi la tirò verso di sé.

   «Sono stanco delle vostre domande» gli comunicò prima di dare uno strattone deciso che fece cadere in avanti l'aggressore di Lucinda.

   «Che cosa gli avete fatto?» volle sapere la giovane, mentre Stephen si rialzava e batteva velocemente in ritirata, rivelando di essere un codardo.

   «Niente, ho solo ferito il suo orgoglio, come del resto lui ha ferito il vostro» fu la sua risposta mentre faceva segno ad Azziz di venire avanti con la loro carrozza. «Quanti anni avete, mia cara?»

   Stephen intanto fuggiva a gambe levate, intimorito dalla stazza di Toro e di Azziz e dai loro coltelli.

   «Diciassette» ribatté Lucinda. «Ne compirò di­ciotto fra tre mesi. Grazie per avermi aiutato, se non fosse stato per voi...»

   Diciassette anni e lei ne aveva ventuno. A diciassette anni Emerald era fuggita dai Caraibi verso le Indie Olandesi, inseguita da chi voleva ucciderla.

   «Mio fratello mi aveva avvertito di non avere nulla a che fare con il Conte di Westleigh, ma non gli avevo voluto dare ascolto.»

   «Vostro fratello?»

   «Il Duca di Carisbrook, sono sua sorella minore.»

   La sorella di Asher Wellingham? Per un attimo Emerald pensò che avrebbe potuto ricattare il duca chiedendogli il bastone in cambio della sorella, ma scartò immediatamente l'idea.

   «Conoscete mio fratello, Mr...?»

   «Mr. Kingston» improvvisò Emerald.

   «Mio fratello è molto generoso, Mr. Kingston. Vi saprà ricompensare bene per quello che avete fatto, non dubitate.»

   Emerald non poteva correre il rischio di incontrare di nuovo Asher vestita in quel modo, ma doveva riportare Lucinda a casa al più presto. Se Toro si fosse messo alla guida della vettura del duca, avrebbero potuto lasciarla davanti alla resi­denza londinese dei Wellingham e poi sparire con l'altra carrozza condotta da Azziz.

   Prima però bisognava far salire il povero Burton, ancora a terra per il pugno che aveva ricevuto in testa.

 

   La candela che durava dodici ore, posta sulla mensola del caminetto in biblioteca, era quasi completamente consumata.

   Un'altra notte era passata, grazie a Dio, pensò Asher togliendosi la cravatta e poi la giacca e gettandole su un tavolo.

   Quindi cercò la bottiglia del brandy e riempì un bicchiere. Solo il giorno prima aveva giurato a se stesso di smettere di bere, un'altra promessa mancata.

   In quel momento gli tornò in mente, con incredibile precisione, il viso di Lady Emma Seaton, con la piccola cicatrice sul sopracciglio che lo aveva incuriosito, soprattutto perché lei non aveva cercato in alcun modo di nasconderla.

   Sembrava una cicatrice fatta con un coltello, ma probabilmente aveva un'origine meno cruenta e avventurosa.

   Forse la piccola Emma era caduta giocando, da bambina, e si era ferita su un sasso appuntito.

   In quel momento qualcuno suonò il campanello alla porta di casa. Chi poteva essere a quell'ora?, si domandò Asher. Erano quasi le cinque del mattino.

   Il duca prese una candela e andò ad aprire la porta, ma, prima ancora di avere attraversato l'atrio, sentì sua sorella che piangeva sommessamente.

   Spalancò l'uscio e Lucinda si gettò immediata­mente fra le sue braccia.

   «Dio mio, Lucy! Credevo che fossi a letto, in camera tua.»

   «Steph... Stephen» balbettò lei. «Mi ha portato ai moli, dovevamo partire insieme dopo esserci sposati, invece...»

   «Stephen Eaton?»

   «Diceva di amarmi e mi aveva promesso che stasera, dopo il ballo, mi avrebbe sposato e poi saremmo partiti insieme. Ha dato a Burton un pugno che lo ha fatto stramazzare a terra e io ho avuto tanta paura.»

   «Ti ha fatto del male?» si allarmò Asher.

   «No, un giovanotto con un coltello è intervenuto e mi ha salvato. Mi ha accompagnato qui con la sua carrozza e mi ha lasciato davanti al portone.»

   «Se n'è andato? Non gli hai detto che l'avrei ricompensato?» si stupì Asher.

   Era raro che qualcuno rinunciasse a una ricompensa del Duca di Carisbrook, noto a tutti per la sua generosità.

   «Ha insistito per andarsene, ma mi ha promesso che si farà vivo.»

   Il duca lanciò un'occhiata eloquente al maggiordomo, che si allontanò per ordinare che qualcuno seguisse il coraggioso salvatore della sorella del padrone.

   Asher non era un ingenuo, sapeva che molti atti apparentemente eroici come quello nascondevano spesso una macchinazione per ottenere molto denaro, per esempio con il ricatto.

   Voleva sapere al più presto chi fosse in realtà il misterioso benefattore comparso dal nulla per sal­vare sua sorella.

   «Aveva uno strano accento» fu tutto quello che seppe dirgli Lucinda.

   Venne allora chiamata la sua cameriera personale, che la condusse a letto e rimase con lei fino a quando si fu addormentata.

 

   Peters, il maggiordomo, tornò venti minuti più tardi con novità a dir poco sorprendenti.

   «Il giovanotto che ha condotto qui Miss Lucinda» gli spiegò, «è andato a casa di Lady Haversham, Vostra Grazia. È sceso dalla carrozza ed è entrato nella residenza della contessa. Gibbon è rimasto lì per continuare a sorvegliarlo, quando uscirà.»

   «Molto bene. Grazie, Peters.»

   Che cosa c'entravano Emma Seaton e la Contessa di Haversham in quella storia?

   La zia era a Londra da un anno, la nipote da poche settimane.

   Entrambe non sembravano avere molti fondi a propria disposizione, tanto che Miriam si serviva di carrozze a noleggio, non avendo una vettura propria.

   Chi era il giovanotto che aveva salvato Lucinda? Viveva con le due donne, era un amante oppure un marito?

   Forse soltanto un ospite, ma Asher non ci vedeva chiaro e, come sempre in questi casi, tutti i peggiori sospetti cominciarono ad affacciarsi alla sua mente.

   Chi era il misterioso buon Samaritano che rifiutava perfino di farsi ringraziare?

   Istintivamente sentì il pericolo, come un ani­male braccato.

   Tutta quella storia non aveva senso, ci doveva essere qualcosa di losco.

   Qualcosa che aveva a che fare con Lady Emma Seaton.

 

   Emerald guardò furtivamente fuori dalla finestra della propria camera e imprecò sottovoce. L'uomo era ancora davanti alla casa e lei sapeva benissimo chi l'aveva mandato a sorvegliarla.

   Il Duca di Carisbrook.

   La colpa era tutta sua, non sarebbe dovuta tornare dove viveva Miriam.

   In Giamaica non sarebbe mai stata così imprudente. Perché, quindi, lo era stata a Londra, dove correva rischi anche maggiori?

   Si spogliò in fretta e andò a dormire: non vedeva l'ora di riposare dopo una simile giornata. Per la prima volta era venuta in contatto con il Duca di Carisbrook, in stretto contatto.

   Per anni si era addormentata pensando al giorno in cui l'avrebbe finalmente rivisto in faccia, e quel giorno era arrivato. Erano passati cinque anni da quando le loro vite si erano incrociate per la prima volta sulla Mariposa, eppure le sembrava che fossero trascorse solo poche ore.

   Si accomodò nel caldo nido fatto di coperte sul pavimento, perché non amava dormire in un letto vero e proprio.

   Chiuse gli occhi, ed ecco che il solito sogno cominciò ad affacciarsi alla sua mente.

   Iniziava sempre nello stesso modo: il sole, il profumo del mare, la brezza sul viso. Le grandi vele della sua nave, gonfie di vento, al largo di Turks Island.

   Per non scivolare nel sonno, cercò di concentrarsi sui rumori che sentiva.

   Erano i suoni di Londra: carrozze che passavano, qualche raro cavaliere, il canto stonato di un ubriaco, un cane che abbaiava in lontananza, le voci e le risate dei passanti che tornavano a casa dopo una notte trascorsa a divertirsi in qualche locale.

   Quella era l'Inghilterra, non la Giamaica, e doveva ricordarselo, se voleva uscire viva dalla commedia che stava recitando.

   Pensò agli occhi morbidi come il velluto di Asher Wellingham, il suo nemico giurato, l'assassino di suo padre. Occhi di velluto in cui brillavano mille pagliuzze d'oro. Ai muscoli forti delle sue braccia, che l'avevano alzata come se fosse stata una bambina.

   Emerald si riscosse, spaventata da quello che stava immaginando. Muscoli che le sarebbe piaciuto accarezzare, baciare, sentire di nuovo contro il suo seno, com'era successo quando era quasi caduta e lui l'aveva rialzata con facilità.

   Si sentì umiliata per avere desiderato l'uomo che odiava. Si alzò dal suo giaciglio e si infilò la vestaglia, poi andò ad aggiungere un po' di legna sul fuoco.

   Sul tavolo c'era uno dei tanti libri su cui suo padre Beau le aveva insegnato a leggere e a scrivere. Si trattava di una vecchia edizione delle Satire di Giovenale, che avevano tradotto insieme dal latino.

   In un lontano passato, Beau era stato un buon padre e un ottimo insegnante, nonostante le sue molte colpe come essere umano.

   Colpe che, del resto, aveva espiato per mano del Duca di Carisbrook. Questi aveva atteso instancabilmente la Mariposa nel Golfo del Messico per dare al suo capitano la lezione che pensava si meritasse.

   Azziz le aveva raccontato ogni dettaglio, quan­do il brigantino che aveva raccolto i naufraghi era tornato in Giamaica.

   Erano bastate tre salve di cannone e la Mariposa era colata a picco. Il Duca di Carisbrook non aveva concesso a suo padre di salvarsi su una scialuppa, aveva preteso un duello sul ponte della nave che stava affondando.

   Gli erano bastati un paio di fendenti per fare giustizia, poi se ne era andato lasciandola orfana.

   Emerald prese le Satire di Giovenale e le appoggiò con cura su uno scaffale. Erano uno dei suoi più bei ricordi di un padre letterato, così diverso dal feroce pirata che aveva terrorizzato i Caraibi.

   La vita era stata ben diversa per Emerald quando sua madre era ancora viva. Allora la Mariposa apparteneva a un altro e la loro casa era St. Clair.

   St. Clair, la casa di sua madre che era bruciata davanti ai suoi occhi, dalla cui distruzione si era salvata per puro caso insieme a Ruby, ma che per lei sarebbe stata per sempre il paradiso. Aveva trascorso a St. Clair i primi anni della sua vita, quando non sapeva nemmeno che cosa fosse un pirata. Ci era rimasta anche dopo la morte della madre, alla ricerca di un po' della felicità perduta, e vi aveva cresciuto la sorellastra Ruby.

   Le sembrava che fosse trascorsa un'eternità dalla sua infanzia felice. Da allora non aveva fatto che lottare e sperare invano.

   Adesso però la soluzione di tutti i suoi problemi era ormai vicina.

   Doveva solo trovare quel dannato bastone e ri­tornare in Giamaica, pensò fissando le fiamme che danzavano nel caminetto e augurandosi che fosse arrivata la fine di tutte le sue vicissitudini

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