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Il tesoro nascosto

di SOPHIA JAMES

Inghilterra, 1822 - Durante un ricevimento Asher Wellingham, nono Duca di Carisbrook, rimane folgorato dalla bellezza esotica di una sconosciuta che ha un'aria stranamente familiare. Si tratta di Emerald Sanford, figlia di un pirata dei Caraibi, giunta a Londra dalla Giamaica sotto mentite spoglie per recuperare un raffinato bastone da passeggio nel quale suo padre ha nascosto la mappa di un tesoro. Purtroppo, o forse per sua fortuna, il prezioso bastone è nelle mani di Asher, l'uomo che le ha ucciso il padre. Nessuno dei due ha previsto, però, di innamorarsi perdutamente. E adesso?

14

Emerald trovò la mappa sul proprio letto al ritorno da una passeggiata nell'orto insieme ad Alice.
    Fu subito certa che Asher fosse tornato.
    Non lo vedeva da otto giorni e la stanchezza che prima la teneva costantemente a letto aveva co-minciato ad allentare la sua morsa, mentre la ferita al fianco guariva.
    Esaminò i dati sulla mappa. Il luogo si trovava a occidente di Powell Point e la data indicata era il 1808, l'anno successivo a quello in cui sua madre se ne era andata. Lo stesso periodo in cui suo pa-dre aveva acquistato la Mariposa e si era illuso di essere diventato il padrone dei mari.
    Ripiegò la mappa e la fece sparire dentro a un libro, stando attenta che non si vedesse fra le pa-gine.
    Un pensiero la tormentava. Era quella l'ultima gentilezza di Asher, che le aveva promesso la mappa prima di metterla su una nave per la Gia-maica e dirle addio per sempre?
    Qualcuno bussò alla porta facendola trasalire.
    Era un valletto venuto per comunicarle che Sua Grazia il duca chiedeva il piacere della sua com-pagnia e aveva mandato lui a farle strada.
    Emerald resistette alla tentazione di andare allo specchio per vedere come stava. Raccolse l'ampia gonna e seguì il valletto.
    Era stata molto fortunata, nella disgrazia.
    Adesso tutti i McIlverray erano morti e il cone-stabile locale aveva definito la loro disavventura un attacco di banditi di strada.
    Di certo, c'era l'influenza del duca dietro al comportamento dell'autorità giudiziaria. Asher aveva sicuramente fatto in modo che non nascesse uno scandalo in grado di nuocere a lei o ai Wellin-gham.
    Quando lo raggiunse, lo trovò in piedi davanti alla portafinestra, il giardino sullo sfondo. I suoi capelli sembravano ancora più neri, i vestiti sem-plici dai colori dimessi mettevano in risalto il suo corpo perfetto.
    Non toccarlo.
    Non lasciare che si avvicini.
    Non fargli capire quanto male ti ha fatto e quanto te ne può ancora fare.
    «Buongiorno, Emerald» la salutò semplice¬mente senza far nulla per avvicinarsi o farla avvicinare. I suoi occhi non erano mai stati così scuri, niente velluto o pagliuzze dorate.
    «Grazie per la mappa» fu tutto quello che riuscì a dirgli.
    «Ora tornerai in Giamaica e cercherai il tesoro?»
    «È quello che ho intenzione di fare.»
    «Sì? E come lo farai? Con quale nave?»
    Era una bella domanda. Non aveva il denaro per noleggiare una nave, men che meno per com-perarla. Nessuno le avrebbe fatto credito né aveva proprietà da vendere o da barattare.
    «Come ti avevo già anticipato, il Nautilus è prossimo a partire» la informò lui.
    Emerald non seppe che cosa rispondere.
    «Se vuoi, ti può dare un passaggio fino in Gia-maica» aggiunse Asher.
    «Perché?»    
    «Perché eri vergine» le rispose lui con distacco, come se si trattasse di una semplice transazione d'affari.
    Emerald strinse i pugni e andò a guardarlo negli occhi.
    «Non sono incinta» ci tenne a fargli sapere.
    «La mia offerta non è condizionata all'arrivo di un erede» precisò lui ed Emerald avvertì il suo re-spiro caldo sulla guancia.
    Quella conversazione era così assurda che la giovane si sentì improvvisamente stanca. Stanca di quel gioco con i sentimenti, stanca di tutto. A-vrebbe solamente voluto che Asher la prendesse fra le braccia e la stringesse forte per proteggerla da qualunque pericolo, per sempre.
    Un gabbiano passò basso nel cielo, stridendo pietosamente. Ci sarebbe stata pioggia in giornata, Emerald ne era sicura come un vecchio marinaio. Senza accorgersene portò la mano verso il fianco.
    «Ti fa male?» le domandò Asher.
    «Di tanto in tanto. La colpa è mia, uno dei Mc-Ilverray si è accorto di un mio attimo di distrazione e ne ha approfittato per colpirmi al fianco.»
    «Usi la spada come un uomo.»
    «Sono stati degli uomini a insegnarmi a usarla.»
    «E Ruby? Chi è Ruby? Ne parlavi quando avevi la febbre.»
    «È la mia sorellastra. Adesso ha otto anni, sua madre l'ha abbandonata quando aveva meno di due anni.»
    Era la figlia di Beau e di una delle prostitute a cui lui si accompagnava, rimasta incinta contro la propria volontà e priva di istinto materno.
    «Dov'è adesso?»
    «In un convento e non so proprio come se la stia cavando.»
    Bastava il suo tono di voce per capire che era molto preoccupata. Ruby era stata abituata a vive-re libera e, per quanto le suore fossero compren-sive, il convento le sarebbe pur sempre sembrato una prigione.
    Come sarebbe riuscita a sopravvivere a lungo lontana da tutti quelli che l'amavano?
    «Ama la musica e io le ho insegnato a suonare l'armonica e a curare il giardino di St. Clair.»
    «St. Clair era la tua casa di famiglia?»
    «L'aveva fatta costruire mia madre, era molto grande. Abbiamo vissuto lì fino all'estate scorsa, quando i McIlverray le hanno dato fuoco nella loro ricerca della mappa di mio padre.»
    «E poi dove vi siete trasferite?»
    «In una locanda, fino a quando zia Miriam ci ha mandato il denaro per venire a Londra.»
    «E se non riuscissi a trovare il tesoro, nemmeno con la mappa?»
    Emerald non rispose, non riusciva a rispondere. Prese fra le dita il ciondolo che aveva al collo e lo strofinò, una specie di rituale che aveva ripetuto altre volte per scacciare la paura.
    Il ciondolo apparteneva a un'epoca in cui la sua famiglia era stata prospera e felice, un periodo che non era mai ritornato.
    «Sono stato a Thornfield e ho visto Annabelle Graveson. Mi ha chiesto come stavi e mi ha dato questo per te.»
    Asher si chinò e prese un libro da una bisaccia appoggiata sul pavimento. Era rilegato in cuoio rosso. Emerald lo prese e lo aprì vedendo, sul frontespizio il nome di Evangeline Montrose e un'incisione che ricordava innegabilmente il ciondolo che aveva al collo.
    «Il nome di mia madre era Evangeline» disse ad Asher.
    «Il nome da ragazza di Annabelle era Montrose. Mi ha detto che tua madre era sua cugina.»
    «Tu lo sapevi?»
    «Avevo notato il disegno del tuo ciondolo sul suo stemma familiare. Annabelle sembrava piut-tosto agitata quando mi ha dato il libro.»
    «Credi che sia pazza?»
    «Pazza? Perché mai?»
    «Mia madre non era molto equilibrata.»
    La pazzia poteva essere un tratto familiare, che cosa ne sapeva?
    Improvvisamente le sembrò che il sole fosse diventato ancor più caldo, soffocante.
    Era giugno, chissà dove sarebbe stata a luglio?
    Perché Annabelle aveva dato quel libro ad Asher e non a lei, correndo il rischio di rendere pubbliche le vergogne della propria famiglia?
    Forse era un modo per mettere il duca in guar-dia. Così la cosa avrebbe avuto un senso. Jack Henshaw, infatti, aveva detto che Asher era il fi-duciario per gli affari dei Graveson e non ci sa-rebbe stato nulla di strano se Annabelle avesse cercato di proteggerlo rivelandogli che lei appar-teneva al ramo maledetto della loro famiglia.
    Se solo Asher l'avesse guardata con un po' di desiderio, se avesse preso la sua mano, se avesse mostrato anche solo un briciolo di tenerezza...
    Invece tamburellava nervosamente con le dita sul tavolo, come se aspettasse soltanto di liberarsi di lei.
    «Il Nautilus può salpare nel giro di quattro giorni, così avrai il tempo necessario per parlare con Annabelle, se vuoi» le disse lui. «Comunque non credo che tu debba avere timore, perché un eventuale scandalo si rifletterebbe su di lei e sulla sua famiglia in virtù della vostra parentela.»
    Non vedeva l'ora di imbarcarla, prima che po-tesse combinare altri guai. Come i giocatori u-briaconi che le era capitato di vedere aggirarsi in-torno alle taverne di Kingston, con cui nessuno voleva avere a che fare. Era facile liberarsene e dimenticarsi di loro.
    Non avrebbe più rivisto Asher, non lo avrebbe più avuto accanto nelle notti in cui i fantasmi tor-navano a insidiare la sua pace.
    Non avrebbe più camminato per i prati di Falder, dove era stata accettata come una della famiglia.
    Ma sollevò il mento. Non si sarebbe umiliata a chiedergli più di quanto fosse disposto a darle. Tuttavia doveva pensare al bene di Ruby e di Mi-riam.
    «Potrò disporre del Nautilus per una settimana, in Giamaica?»
    «Sì. Puoi fidarti di Peter Drummond, nel caso trovassi qualcosa.»
    Era chiaro che lui non sarebbe andato con loro. Emerald si morse le labbra mentre lui si chinava a prendere la bisaccia e aggiungeva: «Manderò un biglietto ad Annabelle Graveson e ti farò sapere al più presto la sua risposta».
    Asher se ne andò ed Emerald tornò da sola nell'appartamento che divideva con Miriam.
    Sua zia stava ricamando a mezzo punto vicino a una finestra quando Emerald entrò nella stanza.
    «Il nome di mia madre era Evangeline Montro-se?» le domandò, facendola impallidire. «Anna-belle Graveson ha dato ad Asher questo libro.»
    Lo mostrò a Miriam e tirò fuori il ciondolo per farle vedere che il disegno sul frontespizio era i-dentico.
    «Anche Annabelle si chiamava Montrose prima di sposarsi, lei e mia madre erano cugine.»
    «Non lo sapevo. Pensi che ci si possa fidare di lei?» si preoccupò Miriam.
    «Penso che anche lei abbia interesse a tenere nascosta questa storia della nostra parentela. E poi, per quanto ci riguarda, partiremo per la Giamaica fra quattro giorni su una nave dei Wellingham.»
    «E Asher Wellingham...?»
    «Asher sarà felice di vederci partire» concluse Emerald con un nodo alla gola.
    «Mi dispiace, Emmie...» riuscì a dire Miriam, ma la giovane la fermò con un gesto e andò a chiudersi nella propria stanza.
    Una volta da sola, urlò silenziosamente, tap-pandosi la bocca. Era un grido di rabbia, di addio, di frustrazione e di dolore.
    Poi prese il libro e andò a guardarlo vicino alla finestra. La sua mente si affollò di domande.
    Quando sua madre aveva scritto il proprio nome sul frontespizio? Era ancora una bambina o conosceva già Beau ed era in Giamaica? A quando risaliva l'incisione uguale al ciondolo che lei porta-va al collo?
    Il suo amato ciondolo, in cui era stato inserito un delphinium azzurro e che lei aveva strofinato tante volte per buon augurio, cercando un po' della protezione materna.
    E, poi, com'era Annabelle venuta in possesso di quel libro? Emerald ignorava ogni cosa, suo padre non le aveva mai parlato della madre.
    Si strinse forte sul petto il libro, come se fosse stato una persona amata. Ricordava pochissimo di Evangeline, non il viso, non un vestito, solo la sua voce. Non aveva mai visto un suo ritratto.
    Lasciò il libro e andò a mettersi davanti allo specchio.
    Ecco l'unico ritratto che poteva avere di sua madre: se stessa. Eliminando quanto era di suo padre, avrebbe visto Evangeline. Aveva il mento e il taglio degli occhi di Beau, la sua altezza e il suo colore della pelle. Ma le fossette? E i capelli? Lui li aveva avuti scuri e dritti, così diversi dalla massa di ricci dorati che incorniciava il suo volto.
    Ecco, i capelli erano una parte di sua madre. Con un po' di sforzo avrebbe trovato anche il re-sto, si disse scrutandosi nello specchio.

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